martedì 1 marzo 2016

grosso guaio nel tredicesimo
[prima parte]

    

    La Chinatown di Parigi è tipo un grande formicaio colorato.
    Ogni cartello è in almeno tre lingue: cinese, vietnamita, tailandese... E anche i cinesi non sono mica cinesi e basta. Ci sono i cinesi della Cambogia, che non si riconoscono nei cinesi di Canton, che non c'entrano niente coi cinesi di Hong Kong. Per non parlare di quei pariolini dei taiwanesi.
    Arrivando a Parigi dall'Oriente, hanno accettato tutti un declassamento: i professori fanno gli idraulici, i quadri fanno gli operai, gli ingegneri fanno i fattorini. Se hanno un vizio – e ce l'hanno – hanno il vizio del gioco.
    – Come in Grosso guaio a Chinatown? – chiedo a Libera, che (quanto mi piace quando sa le cose) mi sta istruendo sulla popolazione del Tredicesimo.
    Ha un nome bellissimo, Libera. Io lo pronuncio rafforzando la B, perché, come me, lei viene da Roma. E poi lo abbrevio per comodità, così finisce che di solito la chiamo Libbe.  Ha capelli cortissimi e neri, una voglia sotto il mento, occhi tondi di cui – pare assurdo – ho scordato il colore. Adora le torte alla frutta, i cartoni animati giapponesi e continua a dire che un giorno farà l'attrice o la rivoluzione.
    – Ma ormai sei vecchia...
    – Per quale delle due?
    In questo pomeriggio di metà gennaio, passeggiamo tra gli alimentari e i pazzi di Avenue de Choisy, fregandocene del freddo, del senso, dell'ora. Lei ha un piano, credo.

    Invece, il Maestro Chen è un tipetto basso e saggio che, quando parla da dietro la scrivania, si sbilancia su un piede o sull'altro, come non riuscisse a controllare la sua poca altezza; fatico a credere che sia un maestro di ballo.
    – Entrambi romani? – chiede il Maestro.
    – Sì, ma lui è un romano triste, – risponde Libbe, chiudendo rapidamente le presentazioni.
    – Sorridi anche se tuo sorriso è triste, perché più triste di sorriso triste è tristezza di non sorridere, – mi dice, saggio, il Maestro Chen.
    (Evito di trasformare le erre in elle, che sennò diventa una cosa da parrocchia, ma voi sentitevi liberi di farlo, mentre leggete le parole del Maestro Chen. E sentitevi liberi di immaginarvelo un po' come il vecchietto di Karate Kid.)
    – Bene. In questa scuola noi insegnare danze tradizionali cinesi, ma in fondo insegnare vita. Perché vivere e ballare stessa cosa. E mondo sempre avere musica di sottofondo: voi sentire?
    – Io sì, – risponde Libbe mentendo.
    – È per questo che terra è come ruota, – continua a dire il Maestro Chen, in una sua lingua strana che non so cosa sia ma di sicuro non è francese. Quando parla, tiene sulla bocca il sorriso ebetico finto che hanno sempre i cinesi. – In realtà terra non ruotare; terra fare piroette.
    – Bisognerebbe unirsi, Maestro, e insieme farla ruotare al contrario, una volta per tutte, non trova? – replica Libbe maliziosa. Lo dice facendo gli occhi ancora più rotondi del solito. E il suo vorrebbe essere un invito di carattere politico-sociale, immagino, ma qualunque essere maschile eterosessuale lo intenderebbe diversamente.

    – La danza è una copertura, è evidente, – mi dice Libbe, non appena siamo usciti. – Hai sentito quello che diceva sull'importanza di capire quando è il tempo giusto per partire?
    – Ma piantala, parlava di ritmica.
    – Dici così perché non sai leggere tra le righe...
    – Quali righe?
    – E comunque il Maestro è un gran figo. Hai visto come mi guardava di traverso?
    – Mi pare guardasse me, a dire il vero.
    – Secondo te gli piaccio?
    – Secondo me è gay.

    Per farla breve, Libbe si appassiona a questa cosa delle danze orientali, si convince che il Maestro è uno giusto, continua a sussurrarmi con gli occhi rotondi e dolci che insomma ma mica ce la manderò da sola.
    – Devi venire assolutamente.
    – Ma è una palla...
    – Non ti piace la musica tradizionale cinese?
    – Mi piace Battisti.
    – Piantala.
    Io faccio il difficile per qualche giorno e poi (quanto mi piace quando insiste) accondiscendo.
    Insomma, ci mettiamo in testa di aiutare il Maestro Chen nella preparazione della sfilata per il Capodanno Cinese che è in arrivo. È l'anno della chèvre, ci ha detto il Maestro (e io non ho osato chiedere se significhi capra o cervo). Dobbiamo infilarci dentro delle strutture di legno e carta velina. Dobbiamo imparare la Danza del Dragone e quella delle Lanterne. Dobbiamo sorridere per finta. Possiamo farcela.




    La cosa va avanti per un paio di settimane e, detto tra noi, sembra pure divertente.
    Finché una sera, al corso, mi sembra che il Maestro mostri a Libbe dei passi nuovi con più trasporto e passione del solito. E che mentre lui lo fa, Libbe lo guardi con più malizia e desiderio di quelli che una danza tradizionale cinese richiederebbe.
    A fine serata, vedo che parlottano e ridono.
    Raccolgo lo zaino, infilo la giacca, mi avvicino.
    – Posso invitare tua donna a cena questa sera? – mi domanda il Maestro sottovoce.
    – Non è la mia donna...
    – Meglio così. Capello di donna lega elefante, – dice, saggio, il Maestro. Io la sapevo un po' diversa.
    Guardo Libbe indossare un giubbino e mettere in spalla la borsa che le ho regalato io il mese prima.
    – Ci vediamo dopo? – chiedo.
    – Ci sentiamo domani, – risponde.
    Li guardo uscire: lui che le tiene la porta aperta, la borsa scelta da me che rimbalza contro la maniglia, il giubbino di lei che struscia contro la giacca di lui.

    Quando Libbe arriva, la mattina dopo, in ritardo di mezzora, ho già bevuto un café serré e mangiato un pain au chocolat e, se non sono andato via, è solo perché devo assolutamente sapere com'è andata a finire.
    – Allora?
    Lei appoggia la borsa su una sedia, appoggia il cappotto sullo schienale di un'altra, si siede con un saltello e, insomma, in pochi secondi, in un modo o nell'altro, i suoi gesti da futura ballerina di danze cinesi distribuiscono sorrisi e adrenalina in tutto il caffè. È un dono. Una cosa che sanno fare loro e noi non impareremo mai.
    – Che diavolo c'è, da ridere? – domando, alzando gli occhi per finta dalle parole crociate.
    – È una bella giornata.
    – È pieno inverno.
    – È quasi primavera.
    Fiori rosa fiori di pesco, canticchia Libbe, che appena può mi prende in giro perché ascolto Battisti.
    – Allora?
    – Vuoi sapere cosa mi ha chiesto il Maestro ieri sera?
    – Eh. Cosa ti ha chiesto?
    Libbe continua a ridere come una matta.
    – Mi ha chiesto se sei gay.
    – Se sono gay?
    – Sì. Mi ha detto che ha capito che non stiamo insieme e allora vuole sapere se sei gay, perché pensa di essere innamorato di te.
    – O Signore...
    Adesso, quasi quasi rido anch'io.
    – E tu cosa gli hai risposto?
    – Che non lo so.
    – Come che non lo sai?
    – E che ne so, io.
    – Ma se ti ho scritto diecimila lettere d'amore, che neanche Pessoa ad Ophélia.
    – Ah, quelle... Vabbè, d'accordo. Comunque, in realtà, io dico che sotto sotto è innamorato di me.
    – Credici...
    – Ha detto che quest'estate mi porta alle Isole Diaoyutai.
    – Che tra l'altro sono giapponesi.
    – Sì, ma ha detto che ancora per poco. Appena torna in Oriente, mette su un gruppo di Samurai e le riconquista.
    – Anche i Samurai sono giapponesi.
    – Che palle...
    – Ti cerca solo perché hai gli occhi verdi.
    – Che vuoi dire?
    – Ma sì, come in Grosso guaio a Chinatown. In Cina, le donne con gli occhi verdi sono rare e preziose.
    – Io non ho gli occhi verdi, – dice Libbe, inforcando all'istante un paio di occhiali da sole con le lenti viola, che mi impediscono di verificare.

    Ma la Chinatown di Parigi è tipo un grande formicaio colorato impazzito.
    Quindi.
    Qualche sera dopo, proprio nel bel mezzo di una prova senza musica di danza del Dragone, irrompe in sala la polizia politica. Cinque ometti con le spalle larghe e la schiena dritta che, più che cinesi, sembrano tedeschi bassi. Fanno uscire in gran fretta tutti gli altri e schierano noi tre, in riga, contro una parete ovviamente arancione. Sembrano conoscerci da una vita.
    – Sappiamo tutto, – dice quello che deve essere il commissario. – Altro che danza del Dragone, qui si complotta contro la Repubblica Popolare.
    – Cazzo voi dire? – esclama il Maestro Chen con gli occhi sgranati.
    – La danza è una copertura. Non fare il furbo. Vi seguiamo da settimane.
    – Ma che cazzo... – ripete il Maestro.
    Mentre Libbe esclama tutta eccitata: – Ma allora è vero che era solo una copertura! –, mentre io sbatto la testa contro la parete arancione e dico a voce alta: – Lo sapevo che non dovevo venire, – mentre il Maestro Chen, già che c'è, tasta il culo a quel figo del commissario.
    – Commissario, se ci segue da settimane, lei sa che io non c'entro nulla con questa storia. Anzi, – dico guardando Libbe, guardando lui e guardandomi intorno, – io, qui, proprio non ci volevo venire.
    Il commissario ride selvatico e insieme inespressivo, come riderebbero i cinesi se fossero sotto sotto anche un po'  tedeschi.
    – Chiedo ufficialmente di poter tornare a Parigi, – aggiungo col petto in fuori e la mano sul cuore.
    – Ahah, questo lo vedremo, – risponde il commissario, sfogliando con disattenzione i nostri passaporti, che chissà come sono finiti tra le sue mani.
    Lo stereo ha ripreso a trasmettere musica tradizionale cinese in otto tempi.
    Il Maestro Chen è confuso e continua ad osservare il commissario con una punta di desiderio.
    Libbe sorride fiera e gonfia il petto, come una rivoluzionaria che sa tutto ma non dirà nulla.
    – Ma dove siamo finiti? – mi chiede.
    – A Pechino, – invento io, col filo di voce che riesco a trovare.

    Uno dei poliziotti scopre una botola e scendiamo una scala pericolante. Attraversiamo una galleria in cui c'è odore di riso e piscine. Scendiamo ancora. Dopo l'ultimo dei gradini, si apre una saletta circolare che sembra una vecchia tabaccheria abbandonata, adibita a ritrovo di sette segrete. C'è puzza di fumo di pipa.
    – È il seminterrato dell'ARFOI, – dico a Libbe.
    – De che?
    – Association des Résidents en France d'Origine Indochinoise.
    – Ma non eravamo a Pechino?
    Una mano sinistra mi prende la mano destra e ci stampa sopra un timbro blu.
    – Così, se vuole uscire a fumare una sigaretta, poi può rientrare senza problemi.
    Io guardo incredulo le due mani e insieme guardo incredulo tutto quello che mi circonda: un tavolo da gioco enorme con tappeto verde, un gruppetto di individui buffi e d'altri tempi che vi siedono intorno, un uomo a capotavola che è tale e quale Marrabbio di Kiss me Licia, solo con un naso un po' più a punta e un'espressione più cattiva.
    – Welcome! – mi dice con una voce da bounty killer. – Sono Marrabbio, lo zio di Kiss me Licia.
    – Ma Marrabbio non era il padre? – mi chiede Libbe sottovoce.
    – Ma infatti, – mi verrebbe da urlare. – E poi era pure giapponese... Finiamola con questa pagliacciata incoerente!
    Però, proprio in quel momento, alzo gli occhi verso Marrabbio e mi accorgo che, mentre si passa un dito sui baffetti, rigira tra le mani il mio passaporto; e un po' mi guarda e un po' lo sfoglia distrattamente, come se fosse una rivista da parrucchiere.
    – Enchanté, – rispondo allora, sfoggiando il migliore dei miei sorrisi cinesi finti.

[continua qui

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