martedì 6 settembre 2016

fado

    Questo è un extra-muros un po' spinto... ma visto che ultimamente si parlava di Lisbona, lo riporto anche qui.
    Un raccontino da leggere al ritmo del fado: scritto qualche tempo fa, pubblicato in un'antologia, e rilucidato con amore per gli amici del SIAP (Scrittori Italiani a Parigi).




    Di Irene amavo gli occhi, la nuca, il coraggio e un certo modo di puntare la lingua contro gli incisivi inferiori nel pronunciare le parole che cominciano per esse impura. Scoglio. Specchio. Stronzo. Quando diceva quelle cose lì, la adoravo.
    – Te adoro, – mi disse lei, la seconda volta in cui ci vedevamo. Tra di noi parlavamo italiano, ma per le stronzate e le frasi romantiche usavamo il portoghese. Era una specie di codice che mi è rimasto appiccicato addosso per parecchio, ad avvelenarmi le conversazioni, anche quando lei non c'era più già da un pezzo.
    Del resto, c'eravamo conosciuti a un corso di lingua. Capii che era romana perché a lezione diceva "sory" con una erre sola. Ci scambiammo gli appunti e cenammo in una bettola di Bairro Alto. Le stradine piene di gente facevano su e giù, e ad ogni angolo c'erano un locale aperto e panni stesi, come a Trastevere.
    Era quel periodo in cui si esce insieme ma non si sta insieme. Ci incontravamo la sera, fumavamo, e bevevamo ginjinha, un liquore alla ciliegia che non mi è mai piaciuto, raccontandoci le novità e le nostalgie. Sembravamo emigranti del periodo tra le due guerre; invece ero solo in Erasmus. Studiavo geometria analitica e sapevo tutto delle coniche.
    – Perché si chiama Erasmus? – chiedeva lei.
    Io le parlavo di Erasmo da Rotterdam, per lo più inventando, e intanto le passavo tre dita dietro la nuca. Lei mi spiegava di essere lì in una sorta di introduzione al Brasile: quattro mesi di lavoro a Lisbona a imparare la lingua, prima di partire per Rio a trovare uno zio e, sperava, fortuna.
    Camminavamo a caso per i colli della città, fermandoci a guardare il panorama ad ogni miradouro. Io guardavo un po' il Tago e un po' lei, che indossava maglie cortissime, sopra un ombelico di quelli col ciccetto all'infuori.
    Era il periodo in cui si sta insieme senza dirselo. Lei elencava le parole nuove che aveva imparato e io le contavo. E intanto pensavo che partire da Roma per andare a Lisbona a innamorarsi di una ragazza di Roma è una carambola che ti riesce una volta ogni mille vite. È normale che uno poi ci legga dentro cose strane: un segnale, il destino, le congiunzioni astrali.
    – É o fado, – diceva lei, e intanto tirava su col naso, perché era sempre mezza nuda ed era ovvio si sarebbe beccata un raffreddore.
    Una volta, le regalai un paio di scarpe tutte colorate. Ci conoscevamo da tre mesi e, secondo me, stavamo insieme. Lei, un po' per volta, iniziò a raccontarmi delle storie che si portava dentro. A una certa età, i suoi s'erano separati e aveva passato due anni con la madre, fatti di crisi continue e rumorose in cui non si capiva chi badasse a chi.
    – Prendimi in braccio e portami alla fermata del tram, – diceva ridendo.
    A diciott'anni, era andata a vivere da sola in una tripla sulla Nomentana Nuova. Studiava, lavorava, si innamorava. A un certo punto s'era persa per uno di vent'anni più vecchio di lei. Grandi progetti. Promesse e cene importanti.
    Ogni tanto, Irene smetteva di parlare e si guardava le scarpe e mi chiedeva se non fossero bellissime. Io allora mi chinavo e le baciavo. Lei allora rideva e riprendeva a raccontare, come se tutto fosse una fiaba lontana o la storia di un'altra.
    Le piacevano le cose colorate: le scarpe colorate, i bicchieri colorati, le esistenze colorate. Aveva preso una di quelle sbandate che a volte spezzano le vite delle persone. Invece lei aveva riabbassato il capo, aveva infilato i guanti di lana, e s'era inventati un presente e un futuro tangibili e coloratissimi, dove prima non c'era che confusione.
    Passammo un fine settimana in Algarve, una regione magica in cui metà febbraio sembra fine primavera. Persino scrollare la sabbia dai sandali era piacevole, in quei giorni lì. Irene mi sedeva sulle gambe e mi descriveva il Brasile come se ci fosse stata per anni. Le spiagge, la foresta, le baracche.
    – E farò volare gli aquiloni, che laggiù sono enormi, – diceva.
    Nei suoi discorsi c'erano solo passato e futuro, ma soprattutto futuro. Io, invece, parlavo pochissimo, perché spendevo tutte le energie ad ascoltarla e guardarle gli occhi o la nuca.
    Se è vero che le storie d'amore sono parabole con la concavità rivolta verso il basso, allora quello era il punto in cui la ipsilon ha valore massimo e la derivata prima vale zero.
    Venne un periodo di piogge continue, due settimane senza interruzioni. Ma neanche questo ci tenne chiusi in casa: io indossavo un k-way, lei le maglie cortissime di sempre, e uscivamo. Ci piaceva, vederci bagnati.
    Era la fase in cui si cerca una definizione formale dell'amore. Io iniziavo a contare i giorni che mancavano alle nostre partenze, mentre lei sembrava non pensarci mai. E riflettevo che innamorarsi perdutamente di una ragazza che tra un mese andrà in Brasile, può darsi per sempre, quando tu fra tre mesi tornerai a Roma, può darsi per sempre, è un delitto, una condanna, un'ingiustizia.
    – É o fado, – diceva lei.
    Erano pomeriggi densi e pensosi, di arcobaleni tendenti al rosa, che in Italia non avevo mai visto.
    Quando le proposi in portoghese di partire con lei per il Brasile, mi rispose in italiano che ero un bambino. Fu una serata silenziosa. Si fece accompagnare a casa prima del solito, mi baciò in fronte anziché in bocca, mi disse buonanotte anziché sali. Se mai eravamo stati insieme, quella fu la sera in cui ci lasciammo.
    Tornai a casa lentamente, evitando le pozzanghere.
    Ancora oggi mi chiedo dov'è che abbiamo sbagliato se abbiamo sbagliato, e di chi è stato il merito se invece abbiamo fatto tutto giusto. E se lei fosse più matura di me, o soltanto meno romantica, o soltanto meno innamorata.
    Di sicuro, quella sera del bacio in fronte, avrei preferito sentirle dire che ero uno stronzo, piuttosto che un bambino. Anche solo per il gusto di vederle rimbalzare in bocca un'ultima esse impura.
    Era marzo. Passai a Lisbona ancora due mesi.
    Durante la settimana, studiavo come un pazzo per recuperare il non fatto.
    Nei weekend, giravo il Portogallo.
    La sera, cenavo da solo e ascoltavo il fado, che è una specie di stornelli romani però tristi.



Il racconto è apparso nella raccolta: AA.VV., Nulla è come sembra. Bonaccorso Editore. 2010
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