mercoledì 16 marzo 2016

grosso guaio nel tredicesimo
[seconda parte]




[Qui trovate la prima parte]


    – Come vede, siamo tutti qui riuniti per una ragione ben precisa, – dice Zio Marrabbio.
    Io mi guardo intorno e francamente non riesco a individuare nessuna ragione ben precisa che tenga riuniti me, Libbe, il Maestro Chen, Marrabbio e tutti quegli uomini più o meno cinesi.
    Guardo l'orologio e scopro che sono le quattro e mezza di notte, o le quattro e mezza di mattina, che vuol dire in ogni caso le nove e mezza a Parigi. E lo so che è un pensiero sciocco, ma quello che penso è che, qualunque cosa succederà adesso, trovo proprio bello che l'ultimo ballo ballato con Libbe sia stato un ballo del Dragone muto.
    Gli uomini intorno borbottano, sempre più piccoli, numerosi e rumorosi.
    Libbe e il Maestro Chen sono scomparsi ("difficile vedere gatto nero in stanza buia, specialmente se gatto non c'è", è l'ultima frase che gli ho sentito dire): forse li stanno torturando, forse sono fuggiti e ora sono romanticamente in volo verso le Diaoyutai, forse sono usciti a fumare una sigaretta e rientreranno tra dieci minuti mostrando il timbro blu sul dorso della mano.
    Io mi sento improvvisamente stanco.
    Mi prendo la testa tra le mani, in un modo molto romano di essere triste, e mentre la scuoto e giro su me stesso e li guardo ad uno ad uno, dico: – Ma quanti cazzo siete?

    Riepiloghiamo: avevo la mia vita, ascoltavo Battisti e passeggiavo per Parigi, poi un giorno ho incontrato Libbe, ho iniziato a mangiare riso alla cantonese, a prendere lezioni di danza tradizionale cinese, e tutto questo perché probabilmente amo Libbe, mentre lei sicuramente ama il Maestro, mentre il Maestro triangolarmente ama me; quindi, qualche ora fa, sono arrivati quelli della polizia politica, ci hanno fregato i passaporti, ci hanno trascinato in questo scantinato che non si sa bene in quale parte di mondo sia, dove c'è questa specie di Zio Marrabbio, solo un po' più brutto e un po' più stronzo, che dice cose senza senso e si circonda di una moltitudine di gente più o meno cinese.
    Ecco.
    Ho capito.
    Ci sono.
    Mi giro verso Marrabbio e con lo sguardo illuminato dico:
    – Ho capito. Lei non è Marrabbio e noi non siamo a Pechino. È tutto uno scherzo. Si avvicina l'anno del Cervo e il Capodanno Cinese è una specie di Carnevale. È uno scherzo ben costruito, lo ammetto. Ma adesso smettiamola con questa pagliacciata...
    – Non è l'anno del Cervo! È l'anno della Capra! – ribattono loro incazzati. Tutti tranne Marrabbio,  che invece ha in mano una padella ed è presissimo a cucinare polpette okonomiyaki.

    E un istante più tardi, lo stesso Marrabbio, che sia lui o no, mi porge un bicchierino di baijiu, un distillato di sorgo che non mi è mai piaciuto, e dice:
    – A me piace il gioco d'azzardo. E a lei?
    – A me piace starmene tranquillo, mi piace Parigi e mi piace Battisti! – vorrei sbottare, ma lui continua a rigirare il mio passaporto tra le mani come un oggetto del desiderio e allora: – Così così, – rispondo.
    – Ce la giocheremo ai dadi, – incomincia. – Se vince, avrà il suo benedetto passaporto. Se perde... che cosa ha da offrirmi?
    – Non molto, guardi, ho investito tutto nei preparativi per il Capodanno...
    – Lei si gioca la sua donna.
    – Non ho nessuna donna.
    – Il mio caro amico Satomi sostiene che ci sarebbe quella donna mora con cui lei ha ballato in silenzio qualche ora fa.
    – Non è la mia donna.
    – Beh, come crede. Può scegliere: la sua donna o la sua vita.
    Io raccolgo tutta la razionalità che mi è rimasta e mi dico che: o è un sogno, e allora in ogni caso non muoio; oppure è tutto vero, e allora muoio in ogni caso, perché anche se vinco ma dove vuoi che scappi con questo branco di piccoli cinesi armati tutt'intorno?
    Tanto vale fare il figo, mi dico, e svegliarmi da romantico o morire da romantico.
    – La mia vita! – esclamo, agitando il braccio come un rivoluzionario d'altri tempi e rovesciando di proposito metà del baiju dal bicchiere.




    – Perfetto, – dice Marrabbio, accondiscendente, mentre mi porge l'ennesima polpetta okonomiyaki. – Dunque, lei conosce il regolamento?
    – Più o meno: se si fa sette o undici al primo lancio, allora si ha diritto...
    – Ah, balle! Lasci perdere queste menate da occidentali. Tre dadi ciascuno, chi fa più alto vince.
    Tre dadi ciascuno. Chi fa più alto vince. Facile.
    – E se si fa pari?
    – Vince chi difende, – risponde prontamente Satomi.
    Giusto, come al Risiko.
    – Allora siamo d'accordo?
    Io, già da un po', a dir la verità, sento una vocina dentro che continua a ripetermi “ma la Cina è dentro Schengen, non serve il passaporto per tornare a Parigi!”. La Cina è dentro Schengen; la Cina è dentro Schengen; la Cina è dentro Schengen: la vocina sembra sapere il fatto suo.
    Però, anche se fosse vero, io penso che sarebbe proprio da vigliacchi uscirmene adesso con questa furbata da avvocati cavillosi e allora la ricaccio dentro.
    – Siamo d'accordo, – rispondo.

    Zio Marrabbio tiene in mano i suoi tre dadi.
    Nessun rumore, nessun suono.
    I cinesi intorno sembrano diventati improvvisamente freddi ed impassibili scandinavi che guardano una lunghissima alba polare.
    Marrabbio agita la sua mano a lungo e poi lascia rotolare i tre dadi.
    Quelli si lanciano come cavalli imbizzarriti sul panno verde, poi rallentano e infine si accasciano stremati, uno dopo l'altro.
    – Assaggi una polpetta, – dice Zio Marrabbio.
    Sei più cinque più tre. Quattordici.
    – Non male, – commenta soddisfatto, togliendosi la bandana da cuoco.
    – D'inverno, quando non serve ombra, albero perde foglie, – chiosa il Maestro Chen, appena rientrato da non so dove. Anche i maestri orientali zen, ogni tanto, vanno fuori tema.

    Prendo finalmente in mano i dadi.
    Guardo Zio Marrabbio e i tre o quattro Bee Hive stretti intorno a lui.
    Ingoio l'ultimo sorso di baiju, penso a Libbe, lancio.
    E allora i dadi-cavallo riprendono la loro corsa, se possibile ancora più imbizzarriti di prima, e saltellano e svolazzano e ogni tanto addirittura nitriscono. E poi uno si accascia ed è un sei. E poi un altro tenta un'ultima mezza giravolta e si accascia ed è un cinque. E ce n'è un ultimo che sembra non pago e ancora corre, corre, e saltella, finché, sotto gli occhi miei, e di Zio Marrabbio che continua a invitare tutti ad assaggiare le sue polpette, e degli altri cinesi-scandinavi muti, si avventura verso la fine del panno verde, e coraggioso e indomito si lancia persino oltre, come verso un precipizio che nessun recinto aveva immaginato, e previsto, e ingabbiato.
    Sento il tintinnare asciutto del legno del dado sul pavimento, e insieme la voce fastidiosissima di Satomi che chiede: – Che si fa? Vale lo stesso o si ripete?

    – Vale lo stesso ed è un due, – dice un nanerottolo riccioluto e paffuto che deve essere Andrea, quello che un giorno di pioggia, insieme a Giuliano, incontra Licia per caso. Nel dirlo raccoglie il dado, senza che nessun altro riesca davvero a vedere il risultato.
    – Ma no che non vale, – provo a protestare. – E comunque, a me era parso un cinque.
    – Silenzio, – interviene Marrabbio. – Sei più cinque più due fa tredici. Mi spiace, ha perso. È condannato a un finto suicidio in stile regime; verrà gettato giù da un punto a caso della Grande Muraglia e la Gazzetta del Tredicesimo scriverà che la nostalgia della sua terra l'ha spinta a questo gesto estremo.
    – Ah, mon amour! – urla il  Maestro Chen. – Amore senza baci è come riso senza sale, – dice con enfasi, mentre si avvicina minaccioso, con le labbra a culo di gallina.
    – Ma piantala, – faccio io, che in tutto il trambusto delle ultime ore devo esser diventato anche un filino geloso del commissario.
    Il Maestro Chen allora tira fuori una lama cinese e se la punta alla gola.
    – Dove hai preso quella lama? – chiedo io, concitato e contento. – Ma che cazzo fai? Accoltella questi disgraziati, piuttosto!
    – No, gioco è gioco. Avere perso, dovere pagare. Però posso sacrificare io mia vita per te, mon amour.
    – Nooo! – urla Libbe, spuntando fuori di corsa dall'altra parte della sala. – Piuttosto, sono io che mi sacrifico al tuo posto!
    Quindi solleva il coperchio di una botola, che sembra finire dritta dritta nella Senna o nel Chaobai.
    – Sono la tua Ofelia, lo dici sempre, e come Ofelia morirò annegata. Addio. Viva la révolution! – grida. E si getta nella botola, così rapidamente che non riesco neanche ad acchiapparle per un'ultima volta il colore degli occhi: il  dubbio mi resterà per sempre.
    – Ma no, non intendevo quell'Ofelia lì, cazzo, – sussurro con un filo di voce.
    Al che, Zio Marrabbio scatta in piedi con un balzo.
    – Ah, Kiss me Licia, mio dolce bebè, – bisbiglia, evidentemente anche lui in preda a confusione, e con ancora meno voce di me. Quindi si piega sulle ginocchia, trangugia il resto della bottiglia di baiju, dice in rapida successione Assaggi ancora una polpetta e Non mi piace quel tipaccio col ciuffo rosso, e infine si contorce sul proprio addome e muore di cirrosi epatica.
    Non capisco più nulla.
    Voglio morire anch'io, voglio Parigi, voglio la mamma, voglio te e voglio una vita.
    Far l'amore nelle vigne. Cade l'acqua ma non mi spegne.
    Mi rendo conto che sto canticchiando.
    I Bee Hive si sono raccolti tutti intorno a Zio Marrabbio. Oppure sono morti nello stesso istante anche loro, e dentro la vecchia tabaccheria abbandonata, colorata di luci che sembrano ormai stroboscopiche, sono sempre più stanco e più solo.
    Esplode un tonfo secco.
    Risuona per secondi, portato a spasso  per il locale da qualche sinistra amplificazione. Mi giro e quella che vedo sul pavimento è una macchia scura di sangue cinese, che si allarga rapidamente sotto il corpo immobile e saggio del Maestro Chen.
 

    Io, è dall'inizio che spero di chiudere il racconto risvegliandomi con la fronte appoggiata a un tavolino rotondo di qualche brasserie della Butte-aux-Cailles. Con la confusione e il mal di testa classici di un post-sbornia. Soluzione abusata, per carità, ma avete idee migliori?
    Mi concentro, chiudo gli occhi, conto cinque o sei secondi, li riapro. Niente: sono ancora dove non vorrei essere.
    – So io dove vorresti essere... – sussurra Libbe, mentre riemerge da una botola, maliziosa, sexy e tutta sgocciolante di acqua sporca della Senna o del Chaobai.
    – Libbe!
    – Eccomi. Tutto a posto?
    – No. Per niente. Serve una chiusa.
    – Una chiusa?
    – Volevo giocarmi la trovata del sogno alcolico ma a quanto pare non funziona...
    Libbe indossa un due pezzi mozzafiato e una cuffia da piscina. Oltre a un paio di occhialini da sub che, dannazione, mi nascondono ancora il colore degli occhi.
    – Chiediamo al Maestro. Vuoi che non abbia una frase saggia zen per concludere?
    – È vero! Maestro, la prego: ci illumini!
    Il Maestro apre gli occhi prontamente, come se stesse fingendo di dormire anziché morendo. Sorride zen. Si schiarisce la voce.
    – Orso sogna sempre pere, – scandisce lentamente. E poi richiude gli occhi di botto.
    – Eh? – fa Libbe.
    – Eh, – faccio io.
    – Ma che significa?
    – Ma che ne so. Sragiona. Ha perso tanto sangue...

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