domenica 16 agosto 2015

birdgirl

Questo testo è nato tra le fessure di birdman nel marais.



(capotasto sul primo)
    1.
                                          re                                                     fa#
hai marciato controvento per trent'anni e qualche mese
                                              sol
con il tuo bagaglio a mano di proiettili e di rose
                                                   si-                                      fa#-
quant'è vero che hai lasciato errori stesi ad asciugare
                                                    sol
e se hai provato ad impazzire, ci hai provato con piacere
                                         re                                            la-
nonostante sappia bene quanto è finta una canzone
                                          sol
e che io sto alla tua penna come stanno le lattine
                                           si-                                 la
a un apriscatole affilato, adesso mettiti seduto
                                            sol
chiudi gli occhi, se ti pare

e preparati a tacere
                                            re
fino a quando avrò finito

    2.
quant'è vero che parlavi raramente di futuro
e se mettevi su gli occhiali, era per guardarci il cielo
ti sembrava così strano non trovarci proprio niente
che non fosse immateriale oppure troppo più distante
della punta delle dita che stringevano il monile
con cui mi hai grattata via dalla tua scratch map mentale
io ero un film senza il sonoro dato solo in due o tre posti
tu eri un pezzo dei baustelle
ma cantato un tono sopra
e con gli accenti messi giusti


    rit.
sol            la                            re                                                la-
e adesso giri in questa stanza che non è che un'astrazione
                                                      sol                         
come un trompe-l'oeil dell'anima, dal quale guardi uscire
                                         si-                                    fa#-
personaggi immaginari, proiezioni del passato
                                      sol
che ti dicono stai calmo, adesso mettiti seduto
                     la                   re                                       la-
adesso smetti di pensare sia una specie di partita
                                           sol
che non va per forza vinta, ma anche solo respirata
                                         si-                                     la
questa vita che rimbomba nelle voci della gente
                                       sol
allineata giù per strada

per fissarti alla finestra
                                      re       la  sol  re  la  sol
piccolissimo e distante

    3.
quant'è vero che hai lasciato amori stesi ad asciugare
che a centrifugarli insieme forse stingeranno pure
come è stinto il mio sorriso, marzo del duemilanove
quando un tuo cambio d'armadio l'ha riposto in un cartone
quando un tuo discorso idiota si è affrettato a sparpagliare
naftalina ed antitarme tra l'esofago e l'addome
io ero un film di lars von trier proiettato all'orizzonte
tu eri un pezzo delle luci
ma suonato all'ukulele
e coniugabile al presente


    rit.
e adesso giri in questa stanza che non è che un'astrazione
come un trompe-l'oeil dell'anima, dal quale guardi uscire
personaggi immaginari, marionette del passato
che ti chiedono hai finito? non ti sembra esagerato
avere crisi dei trent'anni ad ogni cambio di stagione?
non c'è niente da stravincere, non è che una canzone
e ormai non è che un sottofondo il mormorare della gente
sulla voce di tua madre
che accarezza il davanzale
e dice chiudi, fa corrente


[presto la versione audio]

lunedì 10 agosto 2015

sabato 1 agosto 2015

strade di francia



    Mi ricordo quando avevo gli occhi blu.
    Giocavo a pallone tutto il giorno, gli amici erano quelli con cui sono cresciuto, la sera (ogni sera) mi innamoravo di te.

    Parigi a me va bene. Il fiume, l'accento, la Tour: mi piace tutto.
    Partiamo il giugno prossimo oppure domani sera, non ho ancora capito. E arriviamo che il cielo è grigio chiaro, poco comunicativo ma neanche freddo. Andiamo a cercare il Pendolo di Foucault, prima ancora che un albergo o la casa di un cugino, perché abbiamo letto un libro da ragazzini e ci è rimasto dentro.
    Secondo te il Pendolo sta al Panthéon, secondo me al Conservatoire. Anziché litigare, facciamo la conta. Non mi ricordo chi vince o dove andiamo, comunque adesso sediamo qui, col Pendolo che ci oscilla davanti, maestoso e isocrono, e una ragazzina annoiata sulla sinistra, e un ragazzetto occhialuto e acculturato alla destra di lei. È lui che le spiega e ci spiega il mistero del Pendolo, il suo rimbalzare da una parete all'altra, per gusto proprio oltre che per dimostrare che la terra gira e che il mondo è mobile, l'universo, tutto, tranne al più le stelle fisse.
    Consultiamo l'orologio, respiriamo complici, ci baciamo di nascosto come sedicenni e poi ripartiamo, perché siamo viaggiatori e non turisti.

    Le mani già lo sanno, che un giorno – speriamo lontano – dimenticheranno il tatto caldo, asciutto e borotalcoso delle tue. Succederà gradualmente, come succedono le cose a me, sempre e da sempre, forse per via di una predisposizione naturale alle mutazioni impercettibili e clinicamente indolori.
    Intanto ti tengo dentro più che posso e ti accompagno pure al cesso, perché, a darsi appuntamenti, ma che speranza c'è?
    Incontriamo un mucchio di vagabondi che sanno tutto di noi, incontriamo ragazze della notte e agenti in borghese. Ci trattano e li trattiamo con circospezione ma affetto.
    Siamo cani randagi in un territorio neutrale dove pisciamo a turno.
    Siamo uccelli migratori affamati con in tasca la rotta per il Sud.
    Se davvero c'è un senso, in questo girare a vuoto e sorridenti per le strade di Francia, il senso è continuare a rimandare il giorno in cui dovremo, irrimandabilmente, trovare casa a Parigi.




    Le strade dei francesi seguono le curve dei fiumi o del tempo che passa e sotto, nel buio, è il disegno delle metropolitane a replicarle magicamente. È una notte di luglio, quando siamo in piedi su una banchina di questa fatata e fumosa Gare Saint-Lazare, dove binari che vanno verso la Normandia si intrecciano con quattro linee metro che fanno a fettine la città. Monet aveva avuto un debole per questo posto, poco prima di impazzire dietro le ninfee.
    Non c'è nessuno oltre a noi e a un gatto bianco, che forse ho solamente immaginato. Un secondo prima che passi il treno, tu mi spingi con uno strattone oltre la striscia gialla, giù, lungo i binari, e schizzano pezzi di me dappertutto.
    Arriva un investigatore con la lente, che fa un mucchio di domande inutili e mal poste. Tu piangi per tutto il tempo e ripeti che è stato solo un incidente. Il gatto, se mai c'è stato un gatto, è scomparso. L'investigatore segna su un taccuino le domande anziché le risposte, e alla fine tira una linea dritta che vuol dire che è stato solo un incidente, ne capitano ogni mese, il caso è chiuso.
    E neppure le telecamere della metropolitana, che ti hanno registrata spingermi contro il convoglio, potrebbero mai convincerlo che mi hai ammazzato tu, perché non c'è delitto senza movente, dice l'investigatore, e dove può essere il movente se tu sei lì che piangi tutto il tempo, e hai in tasca i testi di trenta canzoni d'amore che ho scritto per te, e contemporaneamente pezzi di me giacciono scomposti lungo i binari, con pezzi di tue lettere d'amore dentro pezzi delle mie tasche? Il problema degli investigatori è che non si sono sposati mai, nessuno (pensateci) – tranne forse il tenente Colombo – e chissà se sono mai stati innamorati, e allora come volete che possano intuire che tu mi hai ucciso solamente perché, sebbene ti ami e mi ami, i miei occhi pieni di stazioni e chiese non tornavano blu?

    Adesso che ogni cosa ha un nuovo nome, siedo per terra e guardo le nuvole, come faceva Georges Brassens. Sono passati tre giugni dall'ultima volta in cui mi hai detto di volermi bene; tu non ci credi ma io li conto. Come contavo le pecore, i pochi soldi in tasca, i treni senza prenotazione su cui dormivamo: gli alberghi costavano caro e non avevamo cugini a Parigi.
    Ogni tanto imbracciavo la chitarra e arpeggiavo qualcosa; allora delle ragazze si raccoglievano intorno e tu eri gelosa. Qualche volta rimediavo pure spiccioli nel cappello rivoltato, tanti da poterci permettere una busta di frutta, un treno superveloce, un giornale italiano.
    Sulla penultima pagina, in basso a destra, c'è scritto che non è vero che il governo sta per cadere. Come non è vero niente tranne questa cameretta della Cité Universitaire, e il portatile nuovo su cui pigio, e il cursore luminoso che lampeggia ipnotico e regolare come un pendolo. Non è vero che viaggiamo o ho viaggiato, odio la Tour Eiffel, le stelle fisse si muovono, la moglie del tenente Colombo (pensateci) non l'ha mai vista nessuno, non so suonare la chitarra e sono molto più vivo e geloso di te, che del resto non esisti.

    Ti ricordi quando avevo gli occhi blu?



[qui la versione audio]