Mi ricordo quando avevo gli occhi blu.
Giocavo a pallone tutto il giorno, gli amici erano quelli con cui sono cresciuto, la sera (ogni sera) mi innamoravo di te.
Parigi a me va bene. Il fiume, l'accento, la Tour: mi piace tutto.
Partiamo il giugno prossimo oppure domani sera, non ho ancora capito. E arriviamo che il cielo è grigio chiaro, poco comunicativo ma neanche freddo. Andiamo a cercare il Pendolo di Foucault, prima ancora che un albergo o la casa di un cugino, perché abbiamo letto un libro da ragazzini e ci è rimasto dentro.
Secondo te il Pendolo sta al Panthéon, secondo me al Conservatoire. Anziché litigare, facciamo la conta. Non mi ricordo chi vince o dove andiamo, comunque adesso sediamo qui, col Pendolo che ci oscilla davanti, maestoso e isocrono, e una ragazzina annoiata sulla sinistra, e un ragazzetto occhialuto e acculturato alla destra di lei. È lui che le spiega e ci spiega il mistero del Pendolo, il suo rimbalzare da una parete all'altra, per gusto proprio oltre che per dimostrare che la terra gira e che il mondo è mobile, l'universo, tutto, tranne al più le stelle fisse.
Consultiamo l'orologio, respiriamo complici, ci baciamo di nascosto come sedicenni e poi ripartiamo, perché siamo viaggiatori e non turisti.
Le mani già lo sanno, che un giorno – speriamo lontano – dimenticheranno il tatto caldo, asciutto e borotalcoso delle tue. Succederà gradualmente, come succedono le cose a me, sempre e da sempre, forse per via di una predisposizione naturale alle mutazioni impercettibili e clinicamente indolori.
Intanto ti tengo dentro più che posso e ti accompagno pure al cesso, perché, a darsi appuntamenti, ma che speranza c'è?
Incontriamo un mucchio di vagabondi che sanno tutto di noi, incontriamo ragazze della notte e agenti in borghese. Ci trattano e li trattiamo con circospezione ma affetto.
Siamo cani randagi in un territorio neutrale dove pisciamo a turno.
Siamo uccelli migratori affamati con in tasca la rotta per il Sud.
Se davvero c'è un senso, in questo girare a vuoto e sorridenti per le strade di Francia, il senso è continuare a rimandare il giorno in cui dovremo, irrimandabilmente, trovare casa a Parigi.
Le strade dei francesi seguono le curve dei fiumi o del tempo che passa e sotto, nel buio, è il disegno delle metropolitane a replicarle magicamente. È una notte di luglio, quando siamo in piedi su una banchina di questa fatata e fumosa Gare Saint-Lazare, dove binari che vanno verso la Normandia si intrecciano con quattro linee metro che fanno a fettine la città. Monet aveva avuto un debole per questo posto, poco prima di impazzire dietro le ninfee.
Non c'è nessuno oltre a noi e a un gatto bianco, che forse ho solamente immaginato. Un secondo prima che passi il treno, tu mi spingi con uno strattone oltre la striscia gialla, giù, lungo i binari, e schizzano pezzi di me dappertutto.
Arriva un investigatore con la lente, che fa un mucchio di domande inutili e mal poste. Tu piangi per tutto il tempo e ripeti che è stato solo un incidente. Il gatto, se mai c'è stato un gatto, è scomparso. L'investigatore segna su un taccuino le domande anziché le risposte, e alla fine tira una linea dritta che vuol dire che è stato solo un incidente, ne capitano ogni mese, il caso è chiuso.
E neppure le telecamere della metropolitana, che ti hanno registrata spingermi contro il convoglio, potrebbero mai convincerlo che mi hai ammazzato tu, perché non c'è delitto senza movente, dice l'investigatore, e dove può essere il movente se tu sei lì che piangi tutto il tempo, e hai in tasca i testi di trenta canzoni d'amore che ho scritto per te, e contemporaneamente pezzi di me giacciono scomposti lungo i binari, con pezzi di tue lettere d'amore dentro pezzi delle mie tasche? Il problema degli investigatori è che non si sono sposati mai, nessuno (pensateci) – tranne forse il tenente Colombo – e chissà se sono mai stati innamorati, e allora come volete che possano intuire che tu mi hai ucciso solamente perché, sebbene ti ami e mi ami, i miei occhi pieni di stazioni e chiese non tornavano blu?
Adesso che ogni cosa ha un nuovo nome, siedo per terra e guardo le nuvole, come faceva Georges Brassens. Sono passati tre giugni dall'ultima volta in cui mi hai detto di volermi bene; tu non ci credi ma io li conto. Come contavo le pecore, i pochi soldi in tasca, i treni senza prenotazione su cui dormivamo: gli alberghi costavano caro e non avevamo cugini a Parigi.
Ogni tanto imbracciavo la chitarra e arpeggiavo qualcosa; allora delle ragazze si raccoglievano intorno e tu eri gelosa. Qualche volta rimediavo pure spiccioli nel cappello rivoltato, tanti da poterci permettere una busta di frutta, un treno superveloce, un giornale italiano.
Sulla penultima pagina, in basso a destra, c'è scritto che non è vero che il governo sta per cadere. Come non è vero niente tranne questa cameretta della Cité Universitaire, e il portatile nuovo su cui pigio, e il cursore luminoso che lampeggia ipnotico e regolare come un pendolo. Non è vero che viaggiamo o ho viaggiato, odio la Tour Eiffel, le stelle fisse si muovono, la moglie del tenente Colombo (pensateci) non l'ha mai vista nessuno, non so suonare la chitarra e sono molto più vivo e geloso di te, che del resto non esisti.
Ti ricordi quando avevo gli occhi blu?
[qui la versione audio]
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