questo non è un blog su come trovare casa a parigi, ma magari così qualcuno ci finisce sopra per sbaglio
mercoledì 16 dicembre 2015
lunedì 16 novembre 2015
piccola pausa silenziosa
I have known the silence of the stars and of the sea,
And the silence of the city when it pauses,
And the silence of a man and a maid,
And the silence for which music alone finds the word,
And the silence of the woods before the winds of spring begin,
And the silence of the sick
When their eyes roam about the room.
And I ask: For the depths
Of what use is language?
A beast of the field moans a few times
When death takes its young:
And we are voiceless in the presence of realities--
We cannot speak.
A curious boy asks an old soldier
Sitting in front of the grocery store,
"How did you lose your leg?"
And the old soldier is struck with silence,
Or his mind flies away,
Because he cannot concentrate it on Gettysburg.
It comes back jocosely
And he says, "A bear bit it off."
And the boy wonders, while the old soldier
Dumbly, feebly lives over
The flashes of guns, the thunder of cannon,
The shrieks of the slain,
And himself lying on the ground,
And the hospital surgeons, the knives,
And the long days in bed.
But if he could describe it all
He would be an artist.
But if he were an artist there would be deeper wounds
Which he could not describe.
There is the silence of a great hatred,
And the silence of a great love,
And the silence of a deep peace of mind,
And the silence of an embittered friendship.
There is the silence of a spiritual crisis,
Through which your soul, exquisitely tortured,
Comes with visions not to be uttered
Into a realm of higher life.
And the silence of the gods who understand each other without speech.
There is the silence of defeat.
There is the silence of those unjustly punished;
And the silence of the dying whose hand
Suddenly grips yours.
There is the silence between father and son,
When the father cannot explain his life,
Even though he be misunderstood for it.
There is the silence that comes between husband and wife.
There is the silence of those who have failed;
And the vast silence that covers
Broken nations and vanquished leaders.
There is the silence of Lincoln,
Thinking of the poverty of his youth.
And the silence of Napoleon
After Waterloo.
And the silence of Jeanne d'Arc
Saying amid the flames, "Blessed Jesus"--
Revealing in two words all sorrow, all hope.
And there is the silence of age,
Too full of wisdom for the tongue to utter it
In words intelligible to those who have not lived
The great range of life.
And there is the silence of the dead.
If we who are in life cannot speak
Of profound experiences,
Why do you marvel that the dead
Do not tell you of death?
Their silence shall be interpreted
As we approach them.
da Edgar Lee Masters, Songs and satires, 1916
domenica 1 novembre 2015
interrail
[seconda parte]
[Qui trovate la prima parte]
Loro hanno fatto al contrario. Sono partite da nord: Amsterdam, Rotterdam, Utrecht, e poi a scendere Bruxelles, la Bretagna, Parigi.
A Bruges, qualcuno le ha fregato lo zaino, mentre sedevano su una panchina. Ma sembra sia stato un mezzo pazzo che le guardie conoscono bene e hanno beccato subito senza neanche fermarlo, perché dicono non sia cattivo. Ruba le cose per gioco, le porta un po' in giro e poi le lascia per strada o le dà a un vigile.
Storia strana. Giulia va avanti a parlare, ma io mi perdo a guardarle i denti e le orecchie. E mi sorprendo a riflettere su questa ragazza, che è partita undici giorni fa da Lecco e magari, anche se ha una voce bellissima, un ragazzo non ce l'ha, sennò dove vuoi che andava dodici giorni a zonzo per l'Europa con due amiche.
E poi me ne vado un po' per conto mio. Con la testa, dico; il culo sempre piantato sul pavimento della Gare de Lyon. Penso alla gente che ho incrociato per strada e per caso, in questi diciannove giorni imbottiti di roba, come i panini che prendiamo il venerdì notte sulla Palmiro Togliatti. Immagino ci vorrà un po', a digerirli. Penso ai treni che ho aspettato e perso o preso. Ma da sempre, dico, mica 'st'estate. Mi chiedo se ci sia qualcosa di più bello di questo mescolare vite nelle stazioni, e poi lasciarsi per sempre o continuare a mescolarle, ma di solito lasciarsi per sempre. Mi chiedo se anche Giulia, che va avanti a sbattere la lingua contro il palato della sua bocca di ragazza ventunenne di Lecco, sia uno di quei treni che passano e si perdono o prendono. Se lo stessi aspettando. Mi immagino un futuro con lei. Io che mi laureo e mi trasferisco a Lecco a lavorare in una compagnia qualsiasi. Io che prendo l'accento di loro del Nord e voto la Lega. Noi che di domenica ce ne andiamo in barca sul lago e sembriamo Renzo e Lucia.
Giulia sta raccontando di tre ragazzi norvegesi con cui hanno passato due giorni a Bruxelles. Le ragazze si guardano maliziose. Poi, Lia indica ridendo la Francesca.
- E la Fra ha rimediato uno splendido braccialetto portafortuna…
Al che, la Fra mostra, da ragazzina, il bracciale di spago colorato sul suo polso sinistro e se lo sbaciucchia. Hanno classe, ognuna a modo suo.
- Insomma, tutto qui, - conclude Giulia.
- Bello! I castelli della Loira, però, meritavano; almeno un giorno...
- Amboise, te l'ho detto.
- Sì, scusa, hai ragione...
La verità è che basta la voce radiofonica di una ragazza appena un po' più dolce della media, per farmi girare a vuoto. Sempre. E sbandare. E perdere il filo. E dimenticare che è il caso di occupare un posto sul notturno, che intanto è arrivato da un quarto d'ora.
- Klè, forse conviene che montiamo su… Se no, stanotte si viaggia in piedi. Voi che fate?
- Veramente, noi abbiamo la prenotazione.
- Ah, ma siete delle professioniste, allora…
- Se troviamo la nostra cabina potete mettervi lì, così la occupiamo tutta.
- Super!
Ci alzammo tutti insieme, coi nostri rispettivi, enormi zaini.
Opportunamente alternati: una ragazza un ragazzo una ragazza un ragazzo una ragazza. E intanto cantavamo questa è la mia casa, la casa dov'è, come ci aveva insegnato Lorenzo Jovanotti. E quasi quasi, più che camminare, saltellavamo. Io tenevo Giulia per mano ma con innocenza. Klady scherzava con Lia: s'intendevano a meraviglia dall'inizio, si vedeva. La Fra stava nel mezzo e cantava più forte di tutti. Indossava al polso un braccialetto portafortuna di quindici colori.
Eravamo inattaccabili, Signore dell'Universo.
Passeggio, scruto i binari, mangio un croissant comprato in un banchetto della stazione per tentare, proustianamente e invano, di alimentare ancora un ricordo o due. Sono passati quindici anni, sembra volermi dire la torre dell'orologio stile Big Ben, che batte il tempo da lassù e beata lei non sbaglia un colpo. E forse la cosa che è cambiata di meno è proprio la Gare de Lyon, sembra volermi dire.
Per esempio, la Fra è un po' ingrassata. A quanto pare, è rimasta a Lecco, si è sposata e ha una bambina di tre anni che ovviamente somiglia a Nina Moric. L'ho ripescata su Facebook il mese scorso, e adesso ogni tanto ci regaliamo un Like.
Klady è tornato in Albania che saranno dieci anni. Non so di preciso, ma deve dirigere qualcosa di importante. Ad avercelo venti giorni a fianco, rompeva un po'; eppure adesso pagherei per farci insieme un viaggio in treno o una partita a carte.
Lia è finita a fare volontariato in Africa. L'ho vista in una foto e mi è sembrata rasta e abbronzatissima. D'altronde, si capiva già da allora che era lei la vera alternativa del gruppo.
Io dicevo dicevo, ma alla fine non ho fatto altro che scegliere un protocollo più o meno ordinario e seguirlo in maniera più o meno incosciente. Nel frattempo, mentre il protocollo meccanicamente girava, ho continuato ad ascoltare Jovanotti, a viaggiare tutte le volte che potevo e a scribacchiarci sopra raccontini jangle pop, via via un po' meno ingenui e con qualche virgola in più di questo.
Infine, Giulia. Mi ricordo che abbiamo continuato ad aggiornarci per un po', ogni tanto, soprattutto via e-mail. Ci raccontavamo qualcosa, ricordavamo qualcosa, auguravamo qualcosa — col tempo, sempre più sintetici. Oppure ci squillavamo. Ci eravamo promessi di squillarci ogni volta che uno di noi due saliva su un treno o passava in una stazione; era una specie di rito post-Interrail. Però quello che prendevo ogni mattina per Roma non valeva: soltanto gli altri treni e le altre stazioni. In qualche rara occasione, dobbiamo esserci anche sentiti; solo che poi tutte le volte stavo male due giorni e allora non era il caso. È che per telefono aveva una voce proprio insostenibile, sembrava quella delle fate nei film per bambini.
E il Natale dopo l'Interrail, ci siamo rivisti a Roma. È venuta un paio di giorni con la Fra: abbiamo mangiato l'amatriciana e io le ho spiegato i monumenti e insegnato qualche frase in romanesco. Avevamo pianificato un giro tutti insieme per l'estate successiva; ne eravamo contenti e convinti; pensavamo alla Grecia. Ma poi lo sapete come vanno 'ste cose: Klady avrebbe iniziato a lavorare, la Fra sarebbe stata invitata in Sardegna da un'amica, Lia sarebbe stata sotto spese. E io intanto avrei conosciuto una ragazza di Roma, zona Eur, che si sarebbe chiamata Marina e sarebbe stata biologa e bionda; e sarei arrivato a volerle bene bene bene, ve lo giuro.
Perché funziona così, Signore dei Viaggiatori: la strada va avanti zigzagando verso un'idea di casa e ci si trova e ci si perde. Tutto quello che puoi è lasciare indietro dei sassi sui tuoi passi, anche solo per te stesso, un domani, hai visto mai.
[qui la versione audio]
venerdì 16 ottobre 2015
interrail
[prima parte]
Avevamo diciannove giorni di Interrail ammassati nei polpacci e altrove, ma ce li portavamo discretamente. Almeno io, via, che mi sciacquavo dappertutto appena potevo e ogni due giorni mi radevo per forza, fosse pure specchiandomi nei lavandini malfermi dei treni in corsa. Lui appariva un po' più trasandato, ma magari era un atteggiamento.
E invece loro erano stanche da morire ma in gamba, si vedeva, appoggiate con la schiena sulle schiene, e paia di calzini umidi a penzolare dagli zaini enormi, e italiane, come spiegava la maglietta di Lupo Alberto che indossava la più bruttarella; le altre due erano carine.
Stavamo appoggiati a un pilastro della stazione, a smezzarci e masticare solennemente l'ultimo croissant dell'Interrail, manco fosse l'ultimo della vita intera. Chiesi a Klady che si faceva, se aveva voglia, stavolta toccava a lui. Ma sì, rispose alzandosi, chiacchieriamo un po', che sennò si addormentava.
- Per caso, vendete calzini bianchi?
Loro restano spaesate quattro o cinque secondi. Poi, per fortuna, sorridono verso di noi. Avrebbero anche potuto prendersela.
- Sì, ma solo usati e umidi. Due euro il paio…
Lo dice la bruttarella, che ci scommetto quello che volete sarà come al solito la più simpatica e disinvolta eccetera. Deve esserci sotto una legge, qualcosa, fattori genetici.
Comunque vengono da Lecco, Lombardia, Profondo Nord, mentre noi veniamo da Roma, vicino Roma, Caput Mundi. Loro sono Lia, Francesca e soprattutto Giulia, mentre noi siamo soltanto due: l'altro si chiama Klady, che è un nome albanese e non si scrive così.
Sotto e intorno, c'è la Gare de Lyon, che è la stazione da dove parte il treno che ti riporta a casa, se per qualche motivo ti trovi a Parigi e casa tua sta a Lecco o vicino Roma.
- Quindi siete di ritorno…
- Sì, un paio di giorni sulla Costa Azzurra e poi casa.
- Francia Belgio Olanda anche voi?
- E Lussemburgo.
- Il biglietto da 22 giorni.
- No, noi quello da 12.
- Ah, femminucce…
Ridono, per fortuna. Avrebbero anche potuto prendersela.
- Vabbè, raccontateci qualcosa, no? Vediamo che ci siamo perse in questi dieci giorni in meno...
Questo lo dice Francesca, che ha un modo di guardare particolare, molto Nina Moric. Lia invece è bruttarella, ma ride sempre e sembra sapere un mucchio di cose: il tipo di ragazza che vorresti per sorella o compagna di banco. Giulia ha una voce bellissima, da speaker radiofonico.
Per esempio, siamo stati a Mont-Saint-Michel, che è un posto con un'abbazia sopra un promontorio, e intorno il mare o la sabbia. Dipende dall'ora, dal periodo: è una questione di maree. In Italia, un posto così non esiste.
E poi, sempre sulla costa, Saint-Malo — che è un altro must — e più giù, verso la Spagna, Biarritz. Con degli scogli fantastici, da cui Klady ha potuto esibirsi nella sua specialità, ovvero il tuffo carpiato. Le ragazze fanno un oh d'ammirazione molto televisivo. Hanno classe, chi in un modo chi nell'altro. Io le guardo a turno, ma ogni tanto concedo un'occhiata bonus a Giulia. Klady, intanto, ha tirato fuori l'inseparabile mazzo di carte napoletane versione pocket e si sta sparando una briscoletta tête-à-tête con la Francesca.
Allora vado avanti io, dico che ovviamente Parigi, con tutto quello che si sa e avranno visto anche loro. E in più una cosa che va raccontata. Una specie di osteria con un vecchio rivoluzionario corso che prepara delle tartine spettacolose. E quando ti vede col borsone da viaggio non ti fa pagare. Almeno, a noi è andata così, giuro.
Entriamo. Il posto ce l'hanno consigliato all'ostello dicendo it's worth e qualcos'altro che il nostro inglese di scuola superiore non ha afferrato. Ci sediamo a un tavolo in un angolo: io su uno sgabellaccio, Klady direttamente sullo zaino perché le sedie sono occupate, lontane o semirotte. Ma non ci scoraggiamo, dato che quasi subito viene verso di noi un omaccione coi baffi e senza capelli che sembra simpatico. Ci stende un foglio che è il menu e noi ci affrettiamo a scegliere due cose, con l'asterisco accanto e un prezzo abbordabile. Il vecchio fa un mezzo inchino e poi scompare dietro una tenda che nasconde la cucina. Dovete immaginare il locale, non c'è tantissima gente ma è gente particolare: studenti che sono o saranno fuoricorso, quarantenni con l'aria da intellettuali, anziani che sembrano vecchi lupi di mare trascinati a forza in città. Alle pareti, manifesti di iniziative che non capiamo a fondo ma hanno un che di politico-sociale, prime pagine di giornali internazionali, foto in bianco e nero di concerti o altro, in cui riconosciamo spesso, anche se con più capelli e meno baffi, l'uomo coi baffi. Che per noi sarà da quel punto in poi, e per me per sempre, il vecchio rivoluzionario.
Insomma, niente: mangiamo le sue tartine spettacolose e gli facciamo segni d'apprezzamento. Quando ci alziamo per pagare, lui incomincia a chiederci delle cose mischiando il po' di tutte le lingue che conosce: come ci chiamiamo, da dove veniamo, cos'è l'Interrail. Finisce che non ci fa pagare e anzi ci manda via regalandoci due scatolette di tonno e una busta di pane tostato e una pacca sulle spalle e un bon voyage di commiato.
Siamo stati anche ad Amsterdam, ovvio. E chi se la scorda, quella sera che ci siamo messi in testa di chiamare un amico in Italia per raccontargli che lassù è tutta un'altra cosa, altro che chiacchiere, e mi sono ritrovato a fare senza pensarci il numero di casa e a spiegare a mamma che sì, avevo già chiamato nel pomeriggio ma volevo vedere se andava tutto bene, no che non ero ubriaco, mi veniva da ridere ma non ero ubriaco. E chi se lo scorda, Klady piegato in due contro la cabina telefonica.
Abbiamo visto i mulini ad acqua, una vallata con decine e decine. Perché mica puoi andare in Olanda e non vedere i mulini ad acqua. E poi Bruxelles, con le palle dell'Atomium il ragazzino che piscia e la Grand Place, che una sera era tutta ricoperta di fiori e ci hanno spiegato che solo una volta ogni due anni, pensa che culo.
E ancora tante altre cose, che ne so: un pomeriggio a Ostenda, i castelli della Loira, Lussemburgo, Metz.
- Anche Metz? Cosa c'è a Metz?
- Niente di sensazionale. Una bella cattedrale gotica e il fiume.
- Solo la chiesa.
- Vabbè, ma mica è la chiesa di Lecco. Voglio dire...
Klady, che è proprio un grande anche se a starci venti giorni insieme può diventare pesante anche lui — ma penso che dopo venti giorni per me lo diventerebbe chiunque tranne forse una persona che però venti giorni insieme non ce li ho passati e non ce li passerò mai — ha coinvolto pure Lia. Le sta insegnando il traversone, una sorta di tressette all'incontrario che a Lecco non si gioca.
Io proseguo con Giulia, dicendole di quando a Nancy, in stazione, abbiamo messo su un Europa-Sudamerica due contro due, con dei ragazzi conosciuti in biglietteria. Che avremmo stravinto, se solo non ci avesse interrotti una guardia di parte sul quattro a tre per loro.
E poi basta, adesso tocca a te, che ho la gola secca. Hai una voce bellissima: usala ogni tanto, no?
giovedì 1 ottobre 2015
indice dei nomi, dei luoghi e delle cose notevoli
Visto che la quantità di materiale nel blog comincia a farsi consistente, ho pensato possa essere utile mettere un po' d'ordine. Quindi da oggi c'è anche l'indice dei nomi, dei luoghi e delle cose notevoli.
È ampiamente in costruzione e lo sarà per sempre...
È ampiamente in costruzione e lo sarà per sempre...
mercoledì 16 settembre 2015
l'uomo senza testa che guardava passare i treni
La stazione di Poggio Rusco è un posto in cui non finisci per caso. Ci finisci se da Verona vai a Ferrara usando solo regionali, come la donna col cappello rosa e il vestito a fiori, o se in quel posto ci lavori e ci hai lavorato per decenni, come Giulio.
La prima volta che è entrato in questa stanzetta grigia, che fa da sala d'aspetto e biglietteria, Giulio aveva vent'anni ed era più biondo e più bello di adesso. La stanzetta, invece, era altrettanto grigia e altrettanto buia: da una parte, due panche di ferro che si guardano; dall'altra, uno sportello di legno, con una finestrella per chiedere informazioni e un foro centrale per far passare soldi e biglietti; uno di quei posti che viene da pensare siano proprio nati così e non abbiano mai profumato di nuovo, brillato di nuovo, saputo di nuovo.
La donna col cappello rosa e il vestito a fiori, seduta sulla panca di ferro, sta aspettando la coincidenza che arriverà da Suzzara, ma – dice l'altoparlante – arriverà con forte ritardo. È la classica situazione in cui, in letteratura, o avviene un delitto, o ti addormenti e sogni, o arriva qualcuno che ti siede vicino e ti racconta una storia.
Giulio, una storia da raccontare, ce l'ha. Quasi non fa altro che quello, dice: raccontare storie di altri, come fossero sue.
Dietro la finestrella dello sportello, un vecchietto coi baffi e gli occhiali spiega ad interlocutori scocciati il motivo del ritardo, con pazienza e vaghezza. Nelle pause tra un passeggero e l'altro, legge un giornale locale o un romanzo francese. Ogni tanto alza gli occhi. Quando incrocia quelli della donna, li spalanca e sorride. Quando incrocia quelli di Giulio, il socchiude e sorride.
Per venticinque anni, da dietro quella stessa finestrella, Giulio aveva staccato biglietti a tariffa chilometrica, recitato orari dei treni, contato resti. In quei giorni – tutti i giorni –, finito l'orario di lavoro si metteva a sedere fuori, su una panca davanti ai binari, e guardava passare esattamente tre treni: la gente che attendeva, la gente che saliva, la gente che scendeva: i baci gli abbracci e le sigarette. Dopo il terzo treno, tornava a piedi dalla moglie e mangiavano il minestrone.
Finché, a quarantacinque anni e mezzo, aveva avuto improvvisamente voglia di vedere da vicino come fosse fatta la libertà, e magari fissarla negli occhi e scorrerle una mano sui capelli, come in cerca di doppie punte. Una sera, finito il lavoro, e passato il terzo treno, anziché tornare a casa, ne aveva aspettato un quarto. Non avendo nessuno da abbracciare o baciare, aveva fumato una sigaretta e poi era salito sul treno. Quello andava a Bologna. Da lì, ne aveva preso uno per Milano. Poi uno per Torino. Poi tutta un'altra serie di regionali e locali, che in qualche giorno l'avevano portato a Parigi.
Dalle finestre della pensione sul Canal Saint-Martin, vedeva barboni, prostitute, ragazzi impegnatissimi nei loro picnic. Era il posto più vicino ai romanzi di Maigret che fosse riuscito a trovare. La mattina passeggiava lungo il canale; il pomeriggio andava a Gare de l'Est a guardare i treni francesi; la sera raccontava storie di altri alla proprietaria della pensione. C'era un patto, tra di loro: se la storia le piaceva, allora la cena era gratis; se finivano a letto, allora la notte in albergo era gratis.
Un giorno era entrato nella pensione un commissario di polizia, con la pipa e il taccuino. Dentro il canale è stato trovato il corpo di un uomo fatto a pezzi, aveva detto alla donna della pensione. Le ricerche hanno riportato a galla tutti i pezzi tranne la testa, aveva aggiunto. Sarà un qualche barbone, aveva concluso. La donna era rimasta in silenzio. Poi aveva fissato la pipa del commissario. Poi era scoppiata a piangere. No, credo di sapere chi è, aveva bisbigliato.
Davanti al cadavere ricomposto pezzo a pezzo, era stata sul punto di svenire e vomitare. Il commissario l'aveva implorata di guardare con attenzione, l'aveva sostenuta tra le sue braccia, ne aveva raccolto il vomito in un sacchetto. La donna aveva continuato a esplorare quel corpo che aveva imparato a conoscere bene. Finalmente, si era immobilizzata e aveva fatto movimenti decisi col braccio e col capo, che significavano chiaramente è lui, non ho dubbi, interrompiamo questo supplizio. Quindi, si era appoggiata a una sedia e aveva tirato fuori anche il suo ultimo decilitro di bile.
L'aeroporto Charles de Gaulle era diverso da tutte le stazioni che Giulio avesse mai visto. Intorno a lui, c'erano qualche bacio e qualche abbraccio, ma senza troppa magia, e assolutamente nessuna sigaretta. Era stato un attimo. La libertà, gli era bastato guardarla negli occhi da vicino, e sentirne l'odore acre. Aveva tirato fuori dalla tasca il biglietto e aveva iniziato a cercare, nello scritto a caratteri minuscoli del retro, qualche clausola per eventuali rimborsi.
La sera era tornato alla pensione, camminando stancamente. La donna della pensione l'aveva guardato come si guarda un morto tre giorni dopo che è morto. Fregandosene della testa, ne aveva squadrato il corpo, soprattutto: dal collo ai piedi all'ombelico. Dove sei stato?, aveva domandato. Un viaggio d'affari, aveva risposto lui. Quali affari?, aveva chiesto lei.
La donna aveva chiamato immediatamente la questura e s'era fatta passare il commissario. È tornato, gli aveva detto, era in viaggio per affari. D'accordo, aveva risposto il commissario, sarà stato un qualche barbone. Quindi Giulio aveva posato la valigia, aveva abbracciato la donna e le aveva raccontato una storia, a cui erano seguite una cena e una notte d'albergo non pagate.
Il mattino seguente, all'alba, aveva rimesso in piedi la sua catena di treni regionali e locali, intervallati solo da sigarette fumate in fretta tra una coincidenza e l'altra. Aveva lasciato la Francia due giorni dopo. Torino, Milano, Bologna, Poggio Rusco.
Sua moglie era in cucina, vestita di nero, che girava il minestrone. L'aveva guardato come si guarda un marito storyteller, che sai che ne avrà sempre un'altra da raccontare. Ne aveva fissato la testa, soprattutto. Dicevano che eri stato ripescato morto in un canale di Parigi, aveva sussurrato, continuando a girare il minestrone. Ma no, aveva detto lui, ero in viaggio per affari. Quali affari?, aveva chiesto lei.
L'altoparlante dice che la coincidenza da Suzzara arriverà tra cinque minuti sul binario 1.
– È una storia vera? – domanda la donna col cappello rosa e il vestito a fiori. Mentre lo dice, si passa un dito tra i capelli, a maledire le doppie punte. Non si è addormentata e non c'è stato nessun delitto.
L'uomo la guarda senza rispondere. Si alza, si avvicina allo sportello, sposta con il braccio una signora che sta aspettando il resto. Quindi, si appoggia coi gomiti sul banco dello sportello e fissa serio, dall'altra parte del vetro, il vecchietto coi baffi e gli occhiali.
– È una storia vera?
martedì 1 settembre 2015
domenica 16 agosto 2015
birdgirl
Questo testo è nato tra le fessure di birdman nel marais.
(capotasto sul primo)
1.
re fa#
hai marciato controvento per trent'anni e qualche mese
sol
con il tuo bagaglio a mano di proiettili e di rose
si- fa#-
quant'è vero che hai lasciato errori stesi ad asciugare
sol
e se hai provato ad impazzire, ci hai provato con piacere
re la-
nonostante sappia bene quanto è finta una canzone
sol
e che io sto alla tua penna come stanno le lattine
si- la
a un apriscatole affilato, adesso mettiti seduto
sol
chiudi gli occhi, se ti pare
e preparati a tacere
re
fino a quando avrò finito
2.
quant'è vero che parlavi raramente di futuro
e se mettevi su gli occhiali, era per guardarci il cielo
ti sembrava così strano non trovarci proprio niente
che non fosse immateriale oppure troppo più distante
della punta delle dita che stringevano il monile
con cui mi hai grattata via dalla tua scratch map mentale
io ero un film senza il sonoro dato solo in due o tre posti
tu eri un pezzo dei baustelle
ma cantato un tono sopra
e con gli accenti messi giusti
rit.
sol la re la-
e adesso giri in questa stanza che non è che un'astrazione
sol
come un trompe-l'oeil dell'anima, dal quale guardi uscire
si- fa#-
personaggi immaginari, proiezioni del passato
sol
che ti dicono stai calmo, adesso mettiti seduto
la re la-
adesso smetti di pensare sia una specie di partita
sol
che non va per forza vinta, ma anche solo respirata
si- la
questa vita che rimbomba nelle voci della gente
sol
allineata giù per strada
per fissarti alla finestra
re la sol re la sol
piccolissimo e distante
3.
quant'è vero che hai lasciato amori stesi ad asciugare
che a centrifugarli insieme forse stingeranno pure
come è stinto il mio sorriso, marzo del duemilanove
quando un tuo cambio d'armadio l'ha riposto in un cartone
quando un tuo discorso idiota si è affrettato a sparpagliare
naftalina ed antitarme tra l'esofago e l'addome
io ero un film di lars von trier proiettato all'orizzonte
tu eri un pezzo delle luci
ma suonato all'ukulele
e coniugabile al presente
rit.
e adesso giri in questa stanza che non è che un'astrazione
come un trompe-l'oeil dell'anima, dal quale guardi uscire
personaggi immaginari, marionette del passato
che ti chiedono hai finito? non ti sembra esagerato
avere crisi dei trent'anni ad ogni cambio di stagione?
non c'è niente da stravincere, non è che una canzone
e ormai non è che un sottofondo il mormorare della gente
sulla voce di tua madre
che accarezza il davanzale
e dice chiudi, fa corrente
(capotasto sul primo)
1.
re fa#
hai marciato controvento per trent'anni e qualche mese
sol
con il tuo bagaglio a mano di proiettili e di rose
si- fa#-
quant'è vero che hai lasciato errori stesi ad asciugare
sol
e se hai provato ad impazzire, ci hai provato con piacere
re la-
nonostante sappia bene quanto è finta una canzone
sol
e che io sto alla tua penna come stanno le lattine
si- la
a un apriscatole affilato, adesso mettiti seduto
sol
chiudi gli occhi, se ti pare
e preparati a tacere
re
fino a quando avrò finito
2.
quant'è vero che parlavi raramente di futuro
e se mettevi su gli occhiali, era per guardarci il cielo
ti sembrava così strano non trovarci proprio niente
che non fosse immateriale oppure troppo più distante
della punta delle dita che stringevano il monile
con cui mi hai grattata via dalla tua scratch map mentale
io ero un film senza il sonoro dato solo in due o tre posti
tu eri un pezzo dei baustelle
ma cantato un tono sopra
e con gli accenti messi giusti
rit.
sol la re la-
e adesso giri in questa stanza che non è che un'astrazione
sol
come un trompe-l'oeil dell'anima, dal quale guardi uscire
si- fa#-
personaggi immaginari, proiezioni del passato
sol
che ti dicono stai calmo, adesso mettiti seduto
la re la-
adesso smetti di pensare sia una specie di partita
sol
che non va per forza vinta, ma anche solo respirata
si- la
questa vita che rimbomba nelle voci della gente
sol
allineata giù per strada
per fissarti alla finestra
re la sol re la sol
piccolissimo e distante
3.
quant'è vero che hai lasciato amori stesi ad asciugare
che a centrifugarli insieme forse stingeranno pure
come è stinto il mio sorriso, marzo del duemilanove
quando un tuo cambio d'armadio l'ha riposto in un cartone
quando un tuo discorso idiota si è affrettato a sparpagliare
naftalina ed antitarme tra l'esofago e l'addome
io ero un film di lars von trier proiettato all'orizzonte
tu eri un pezzo delle luci
ma suonato all'ukulele
e coniugabile al presente
rit.
e adesso giri in questa stanza che non è che un'astrazione
come un trompe-l'oeil dell'anima, dal quale guardi uscire
personaggi immaginari, marionette del passato
che ti chiedono hai finito? non ti sembra esagerato
avere crisi dei trent'anni ad ogni cambio di stagione?
non c'è niente da stravincere, non è che una canzone
e ormai non è che un sottofondo il mormorare della gente
sulla voce di tua madre
che accarezza il davanzale
e dice chiudi, fa corrente
[presto la versione audio]
lunedì 10 agosto 2015
pagina fb
Da oggi, trovarecasaaparigi ha anche una pagina fb, che, se volete, potete seguire o piacere:
https://www.facebook.com/trovarecasaaparigi
https://www.facebook.com/trovarecasaaparigi
sabato 1 agosto 2015
strade di francia
Mi ricordo quando avevo gli occhi blu.
Giocavo a pallone tutto il giorno, gli amici erano quelli con cui sono cresciuto, la sera (ogni sera) mi innamoravo di te.
Parigi a me va bene. Il fiume, l'accento, la Tour: mi piace tutto.
Partiamo il giugno prossimo oppure domani sera, non ho ancora capito. E arriviamo che il cielo è grigio chiaro, poco comunicativo ma neanche freddo. Andiamo a cercare il Pendolo di Foucault, prima ancora che un albergo o la casa di un cugino, perché abbiamo letto un libro da ragazzini e ci è rimasto dentro.
Secondo te il Pendolo sta al Panthéon, secondo me al Conservatoire. Anziché litigare, facciamo la conta. Non mi ricordo chi vince o dove andiamo, comunque adesso sediamo qui, col Pendolo che ci oscilla davanti, maestoso e isocrono, e una ragazzina annoiata sulla sinistra, e un ragazzetto occhialuto e acculturato alla destra di lei. È lui che le spiega e ci spiega il mistero del Pendolo, il suo rimbalzare da una parete all'altra, per gusto proprio oltre che per dimostrare che la terra gira e che il mondo è mobile, l'universo, tutto, tranne al più le stelle fisse.
Consultiamo l'orologio, respiriamo complici, ci baciamo di nascosto come sedicenni e poi ripartiamo, perché siamo viaggiatori e non turisti.
Le mani già lo sanno, che un giorno – speriamo lontano – dimenticheranno il tatto caldo, asciutto e borotalcoso delle tue. Succederà gradualmente, come succedono le cose a me, sempre e da sempre, forse per via di una predisposizione naturale alle mutazioni impercettibili e clinicamente indolori.
Intanto ti tengo dentro più che posso e ti accompagno pure al cesso, perché, a darsi appuntamenti, ma che speranza c'è?
Incontriamo un mucchio di vagabondi che sanno tutto di noi, incontriamo ragazze della notte e agenti in borghese. Ci trattano e li trattiamo con circospezione ma affetto.
Siamo cani randagi in un territorio neutrale dove pisciamo a turno.
Siamo uccelli migratori affamati con in tasca la rotta per il Sud.
Se davvero c'è un senso, in questo girare a vuoto e sorridenti per le strade di Francia, il senso è continuare a rimandare il giorno in cui dovremo, irrimandabilmente, trovare casa a Parigi.
Le strade dei francesi seguono le curve dei fiumi o del tempo che passa e sotto, nel buio, è il disegno delle metropolitane a replicarle magicamente. È una notte di luglio, quando siamo in piedi su una banchina di questa fatata e fumosa Gare Saint-Lazare, dove binari che vanno verso la Normandia si intrecciano con quattro linee metro che fanno a fettine la città. Monet aveva avuto un debole per questo posto, poco prima di impazzire dietro le ninfee.
Non c'è nessuno oltre a noi e a un gatto bianco, che forse ho solamente immaginato. Un secondo prima che passi il treno, tu mi spingi con uno strattone oltre la striscia gialla, giù, lungo i binari, e schizzano pezzi di me dappertutto.
Arriva un investigatore con la lente, che fa un mucchio di domande inutili e mal poste. Tu piangi per tutto il tempo e ripeti che è stato solo un incidente. Il gatto, se mai c'è stato un gatto, è scomparso. L'investigatore segna su un taccuino le domande anziché le risposte, e alla fine tira una linea dritta che vuol dire che è stato solo un incidente, ne capitano ogni mese, il caso è chiuso.
E neppure le telecamere della metropolitana, che ti hanno registrata spingermi contro il convoglio, potrebbero mai convincerlo che mi hai ammazzato tu, perché non c'è delitto senza movente, dice l'investigatore, e dove può essere il movente se tu sei lì che piangi tutto il tempo, e hai in tasca i testi di trenta canzoni d'amore che ho scritto per te, e contemporaneamente pezzi di me giacciono scomposti lungo i binari, con pezzi di tue lettere d'amore dentro pezzi delle mie tasche? Il problema degli investigatori è che non si sono sposati mai, nessuno (pensateci) – tranne forse il tenente Colombo – e chissà se sono mai stati innamorati, e allora come volete che possano intuire che tu mi hai ucciso solamente perché, sebbene ti ami e mi ami, i miei occhi pieni di stazioni e chiese non tornavano blu?
Adesso che ogni cosa ha un nuovo nome, siedo per terra e guardo le nuvole, come faceva Georges Brassens. Sono passati tre giugni dall'ultima volta in cui mi hai detto di volermi bene; tu non ci credi ma io li conto. Come contavo le pecore, i pochi soldi in tasca, i treni senza prenotazione su cui dormivamo: gli alberghi costavano caro e non avevamo cugini a Parigi.
Ogni tanto imbracciavo la chitarra e arpeggiavo qualcosa; allora delle ragazze si raccoglievano intorno e tu eri gelosa. Qualche volta rimediavo pure spiccioli nel cappello rivoltato, tanti da poterci permettere una busta di frutta, un treno superveloce, un giornale italiano.
Sulla penultima pagina, in basso a destra, c'è scritto che non è vero che il governo sta per cadere. Come non è vero niente tranne questa cameretta della Cité Universitaire, e il portatile nuovo su cui pigio, e il cursore luminoso che lampeggia ipnotico e regolare come un pendolo. Non è vero che viaggiamo o ho viaggiato, odio la Tour Eiffel, le stelle fisse si muovono, la moglie del tenente Colombo (pensateci) non l'ha mai vista nessuno, non so suonare la chitarra e sono molto più vivo e geloso di te, che del resto non esisti.
Ti ricordi quando avevo gli occhi blu?
[qui la versione audio]
domenica 19 luglio 2015
western nel quartiere latino
[audio]
Questo, per il momento, l'ho provato a cappella, senza musica.
Potete immaginarci sotto un Morricone a piacere...
Il testo lo trovate qui.
giovedì 16 luglio 2015
formiche su pont des arts
[audio]
Musiche:
- Ennio Morricone: Nineteen Hundred's Madness N.2 (da La leggenda del pianista sull'oceano)
- Francesco Tricarico: Formiche (da Frescobaldo nel recinto)
Il testo lo trovate qui.
audioracconti
Io lo so che proprio non avete tempo.
Perciò ho pensato che, di tanto in tanto, metterò online versioni audio dei racconti. Così potete ascoltarli mentre prendete la metro, o stendete il bucato, o leggete il blog di qualcun altro.
Non sapendo a chi chiedere di farlo, li leggo io.
Cioè, in sostanza, mi leggo. Che suona abbastanza megalomane, come cosa. Ma d'altra parte, come mi ha detto giustamente un amico, mettere su un blog di racconti è di per sé un'operazione pretenziosa, velleitaria e un po' narcisistica; quindi è inutile che uno poi stia lì a nascondere la mano.
Ho una esse orribile, lo so.
Perciò ho pensato che, di tanto in tanto, metterò online versioni audio dei racconti. Così potete ascoltarli mentre prendete la metro, o stendete il bucato, o leggete il blog di qualcun altro.
Non sapendo a chi chiedere di farlo, li leggo io.
Cioè, in sostanza, mi leggo. Che suona abbastanza megalomane, come cosa. Ma d'altra parte, come mi ha detto giustamente un amico, mettere su un blog di racconti è di per sé un'operazione pretenziosa, velleitaria e un po' narcisistica; quindi è inutile che uno poi stia lì a nascondere la mano.
Ho una esse orribile, lo so.
giovedì 9 luglio 2015
l'amore d'agosto a parigi
[trailer]
Le vite di certe persone sono concatenazioni di piani B.
Libbe voleva fare l'attrice e invece improvvisa flashmob nei giardini comunali, voleva essere felice e invece quando le va bene è inquieta, vorrebbe essere ai Tropici e invece è sdraiata sul cemento coperto di sabbia della Paris Plage.
- Andiamo a fare due passi?
François ha indosso una camicia hawaiana anni '80, e in testa una riga laterale anni '40.
Libbe sistema gli occhiali da sole, cancella una piega dell'asciugamano, sbuffa.
- Méttete a séde e fa' le parole crociate, - gli risponde, senza voltarsi, ovviamente in francese.
[coming soon]
Libbe voleva fare l'attrice e invece improvvisa flashmob nei giardini comunali, voleva essere felice e invece quando le va bene è inquieta, vorrebbe essere ai Tropici e invece è sdraiata sul cemento coperto di sabbia della Paris Plage.
- Andiamo a fare due passi?
François ha indosso una camicia hawaiana anni '80, e in testa una riga laterale anni '40.
Libbe sistema gli occhiali da sole, cancella una piega dell'asciugamano, sbuffa.
- Méttete a séde e fa' le parole crociate, - gli risponde, senza voltarsi, ovviamente in francese.
[coming soon]
giovedì 2 luglio 2015
tutto il ferro della tour eiffel
[seconda parte]
Diário de Notícias
La chiave è avvolta in un foglio di giornale. Lo srotolo e mi accorgo che è una pagina del Diário de Notícias del primo dicembre 1935. Leggo con frenesia e curiosità: in diagonale, come mi ha insegnato un prof delle superiori.
È MORTO FERNANDO PESSOA, LO SCRITTORE DAI TANTI NOMI
Lisbona – Si è spento nella giornata di ieri, a Lisbona, l'intellettuale e scrittore Fernando Antònio Nogueira Pessoa. L'uomo era stato ricoverato nell'ospedale di Luìs dos Franceses venerdì scorso, in seguito ad una crisi epatica [...] aveva 47 anni e lavorava come corrispondente per varie imprese commerciali della Baixa [...] ma il tratto davvero distintivo dell'autore è la scelta dell'eteronimia. Ieri non è morto soltanto Fernando Pessoa ma sono morti tutti quegli scrittori che lui aveva fatto vivere e scrivere, inventando per loro non solo una produzione letteraria ma addirittura una biografia [...] ieri è morto Álvaro de Campos, che Pessoa aveva fatto nascere a Tavira quarantacinque anni fa, dotandolo di aspetto piacevole, altezza media e colorito bruno, e donandogli inizialmente una vena decadente [...] Ricardo Reis, medico latinista e monarchico, nonché autore di stampo neoclassico, che Pessoa aveva deciso a un certo punto di far emigrare in Brasile [...] decine di scrittori minori cui Fernando Pessoa ha solo occasionalmente prestato la propria penna acuminata e mai banale, per il vezzo di esprimersi senza farlo in prima persona o, se si preferisce, di dare voce in modo letterale alle tante anime che popolavano la sua persona (NdT: Nella traduzione in italiano, si perdono inevitabilmente i giochi di parole contenuti nella versione originale dell'articolo: in portoghese, pessoa=persona.) [...] i funerali si svolgeranno con ogni probabilità nella giornata di martedì, in forma non solenne, presso la Basílica de Nossa Senhora dos Mártires.
Luís Carvalho
Sono ai piedi della torre. Ciro è a meno di dieci metri, ma vedo che la sua natura elfica inizia a scuoterlo da dentro. E io mi sento molto più tranquillo, sotto l'ombra arrugginita di quest'ammasso di ferraglia.
– Gira il foglio, – biascica Ciro, prima di accasciarsi a terra. – Gira il foglio...
Giro il foglio e quello che ho davanti agli occhi è una pagina del Diário de Notícias Apócrifo E Verdadeiro del 2 dicembre 1935.
Incredibilmente, all'ingresso della Tour Eiffel non c'è fila.
Come può succedere solo nei giorni di neve o nei racconti di fantasia.
– Conoscete questo Carvalho?
– Un idiota completo. Ma, come vede, la sua stupidità gioca a nostro favore.
La donna è in piedi, le mani appoggiate allo schienale di una sedia, lo sguardo che rimbalza a tutta velocità dall'uno all'altro dei suoi interlocutori.
– Ancora non riesco a crederci...
– Intendiamoci: il Fernando Pessoa alcolista e modesto impiegato commerciale è esistito eccome, – dice Álvaro de Campos, carezzandosi il mento.
– E lei lo sa meglio di chiunque altro, – lo accompagna Bernardo Soares.
Ofélia Queiroz è un po' confusa e un po' incazzata.
– Però... – riprende Álvaro – Ecco... Diciamo che se la cavava nel tradurre dall'inglese, ma niente più di questo.
– Ho conosciuto Fernando in una taverna, una sera, e ho capito subito che era perfetto per il nostro piano. Con quel cognome, poi... Non avrei saputo inventarne uno migliore, – ammette Bernardo Soares, mettendoci dentro un filo di enfasi.
Io intanto sono arrivato al secondo piano della torre, quello dove c'è il Jules Verne.
Famosissimo e costosissimo.
Ma io ho fame.
E ho avuto un pomeriggio difficile.
Entro.
Le lettere d'amore
– Fernando Pessoa è un'invenzione dei suoi eteronimi! – chiosa Álvaro de Campos, con espressione efficace e sintetica, degna dei suoi sonetti migliori.
– Ma si può sapere voi chi siete?
– Siamo un collettivo di scrittori che vuole smascherare la superficialità e la malafede del sistema letterario e mediatico contemporaneo.
– E denunciare i meccanismi che trasformano l'artista in divo.
Ofélia Queiroz è un po' immobile e un po' incazzata.
– E perché dovrei aiutarvi?
– Lo faccia, e tra qualche anno sarà considerata l'unica donna amata in vita dal più grande scrittore in lingua portoghese di tutti i tempi.
– Dentro questo baule, ci sono migliaia di testi che abbiamo scritto negli ultimi vent'anni. Firmati da noi, ma imitando la calligrafia di Fernando. Materiale forte.
– Quello che è uscito finora, al confronto, è robetta.
– Lei deve solo trovare il modo di portare il baule in casa sua. Il giorno in cui verrà aperto, Fernando Pessoa diventerà una leggenda assoluta.
– E poi?
– Quando ci saremo divertiti abbastanza, forse sveleremo che era tutta una balla.
– Intanto partiamo per il Brasile. Ricardo Reis ci aspetta da un pezzo. E tra non molto, qui a Lisbona i nostri nomi saranno troppo popolari...
Mi siedo a un tavolo vicino alla vetrata.
Il menu davanti a me propone faux filet, pavé de saumon, magret de canard... ma io, prima di mettermi a scrivere, devo assolutamente togliermi uno sfizio. Perché lo so che altrimenti i racconti vengono fuori con le voglie sulle gote.
– Una crepe con nutella, – dico, senza alcuna vergogna, al cameriere elegantissimo che si è appena avvicinato.
Lui è stupito, ma sa nasconderlo. Lo pagano, bene, anche per questo. Torna in cucina e ne riesce tre minuti dopo, con una crepe in piatto di ceramica firmato: giallissima, liscissima, rotondissima. Che mi costerà 32 euro.
– Buona, – dico ad alta voce, mentre un'anima sottile di nutella mi si scioglie in bocca. Se ho fatto bene i conti, ogni forchettata sono quattro euro e rotti.
– Falla esse pure cattiva... – commenta dalla spalla sinistra il mio angelo custode romano.
Ofélia Queiroz osserva dalla finestra le facciate bianche, i tetti rossi, la pioggia obliqua di Lisbona. Si volta di scatto. Ha gli occhi un po' umidi.
– Não pergunte... – la implora il suo angelo custode portoghese.
Lei si passa un fazzoletto sugli occhi. È un po' affranta e un po' incazzata.
– Toglietemi una curiosità: quelle lettere meravigliose che mi spediva...
I due uomini si guardano. C'è una pausa semibreve. C'è un minimo cenno di intesa. Poi Bernardo Soares indica con un dito il proprio collega.
– Modestamente... – sussurra Álvaro de Campos, dopo un leggero colpo di tosse.
mercoledì 1 luglio 2015
tutto il ferro della tour eiffel
[prima parte]
Chez Ciro
Il nome, Chez Ciro, starebbe forse meglio sull'insegna di una pizzeria.
Una strana targa metallica è appesa tra il menu delle crepe dolci e il menu delle crepe salate: "Il ferro protegge dalle malíe e dalle invidie dispettose: per questo è odiato dagli elfi e dagli uomini di piccola taglia."
Il mio angelo custode romano, che ho deciso potrà tornarmi utile in questa avventura un po' elfica e mistica, piena zeppa di angeli custodi, continua a ripetermi "lassa perde, damme retta, nun entrà..."
Ma io ho fame.
– Una crepe con la nutella, grazie!
– Prego, prego, venga... – mi dice l'omino della creperia.
È piccolo piccolo.
Ha due baffetti neri neri, una camicia anni Ottanta e una faccia che sono sicurissimo di aver già visto.
– Dove?
– Venga, venga, prego...
L'omino schiocca le dita: l'insegna della creperia si spegne; la saracinesca della creperia si abbassa; sulla targa metallica compare la scritta: "Chiuso per anni".
Seguo l'omino in una specie di scantinato. Lui va dietro al bancone ed è qui che finalmente lo riconosco.
– Guarda qua che cosa c'ho per te: Donna che si spettina, – dice Ciro, e nel dirlo tira fuori un pastello su cartone.
– Non mi sembra granché.
– No, hai ragione, è solo un finto Degas: l'ho fatto io.
– Ciro Degas...
– Ma devi sapere che negli ultimi anni della sua vita, Degas era diventato mezzo cieco; e questo può giustificare molte cose. Fidati di Ciro: fra trent'anni lo crederanno autentico e varrà una tombola. Io te lo vendo al prezzo di una crepe prosciutto e formaggio.
Mi ha convinto. Caccio fuori i 3 euro e 50, senza star lì a tirare sul prezzo, e sperando in cuor mio che la smetta e cucini finalmente qualcosa.
– Ma non ti vedo contento. Forse la pittura non ti appassiona troppo...
– No, vabbè, che c'entra...
– Tu sei più letterato, mi sa. Allora, credi a me, stai in una botte de fero...
Si scosta un po' di lato e tira fuori una boccetta. Con un liquido azzurrognolo. Che sembra venire da lontano.
La poggia sul bancone, con gesti da televendita, e infine esclama: – Mezzo litro di acqua del mare del vecchio e il mare!
Questo è matto. Ma sei euro e novanta mi sembra un buon prezzo: su una mensola del salotto, sotto il finto Degas, un giorno farà la sua figura.
Il baule pieno di gente
– Ma non ti vedo contento. Sei uno scrittore, per caso?
– Se basta scrivere, per essere uno scrittore...
– E a chi ti ispiri?
– Mah, nessuno in particolare. Molto low-profile. Al massimo, potrei essere un eteronimo di qualcuno.
Gli occhi di Ciro si illuminano. Il suo angelo custode elfico, tempestivo, gli infila un guanto di lattice, prima che lui compia la sventatezza di toccare a mani nude un oggetto di ferro. E allora, finalmente e teatralmente, Ciro tira fuori una piccolissima chiave color ruggine.
– La chiave del baule di Pessoa! – dice.
E qui – capirete – anche i miei occhi si illuminano.
– Quello pieno di gente?
– Quello ritrovato dopo la sua morte, con migliaia di scritti attribuiti a lui.
– Attribuiti...?
– Beh, sì, insomma, migliaia di scritti dei suoi eteronimi. Poi ti dico meglio...
– E il baule? Che ci faccio con la chiave senza baule?
– Scherzi? Vai da un bravo fabbro ferraio e ti fai costruire una serratura intorno alla chiave.
– Hmm.
– E poi la fai montare sulla porta di casa.
– Ah.
– E quando rientri a casa, apri la porta utilizzando la chiave del baule di Pessoa. Ti pare niente?
Mi ha convinto. Ci accordiamo per cinquanta euro. Ciro, magnanime, insieme alla chiave mi rilascia un buono sconto da utilizzare presso un fabbro ferraio di Montmartre.
– E visto che hai fatto una bella spesa, ti regalo pure il diario di Asterix e Obelix.
– Bello. Ma è del 2004.
– Embè? Cancelli i giorni e te regoli coi santi...
Saluto e sguscio via dalla porta sul retro.
Ciro mi insegue. Ha in mano un oggetto che non distinguo ma di sicuro vuole vendermi.
Io corro più veloce che posso. Però, col pastello sotto il braccio, la mezzo litro in una mano e la chiave arrugginita nell'altra, mi sento lento e pesante come un Bruno Sacchi di borgata.
Ciro, sempre più vicino, mi grida dietro qualcosa che riguarda Pessoa e la chiave.
Il baule, grida.
Il giornale, grida.
Io corro più veloce che riesco. Ma non basta, se non mi faccio venire un'idea.
E fortunatamente e finalmente, ho un'intuizione – chissà se è il mio angelo custode a suggerirmela. Curvo verso destra, mi butto dentro lo Champ-de-Mars, e inizio a desiderare con spasmodica intensità tutto il ferro della tour Eiffel.
[continua qui]
domenica 21 giugno 2015
il muro dei je t'aime
[trailer]
Mentre rimontavo sulla RER, ho pensato che prima o poi faccio 'sta cosa qua: scrivo un sms del tipo "Ti amo. Finalmente trovo il coraggio di dirtelo" e lo invio a tutte le donne della rubrica tranne mia madre.
Così, solo per il gusto insano di vedere cosa succede. Chi risponde e cosa.
Quasi quasi, lo invio anche agli uomini.
Poi, dopo qualche giorno, cambio scheda e emigro in Argentina, ovvio.
[coming soon]
Così, solo per il gusto insano di vedere cosa succede. Chi risponde e cosa.
Quasi quasi, lo invio anche agli uomini.
Poi, dopo qualche giorno, cambio scheda e emigro in Argentina, ovvio.
[coming soon]
martedì 16 giugno 2015
formiche su pont des arts
Formiche
A casa di Paul, ci stanno le formiche.
A casa di Paul, se andate a vedere, le formiche ci sono state sempre: nella credenza dei biscotti, sotto il lavabo, nei buchetti tra l'armadio e la parete, dentro la doccia, lungo le gambe del tavolo, in mezzo al Nesquik: a casa di Paul, è sempre stato pieno di formiche.
Però prima le formiche erano formiche piccole. Lui le guardava e mica si metteva paura, delle formiche. Ogni tanto ne schiacciava pure qualcuna. Così. Che servisse di monito a tutte le altre.
E ogni santo giorno, prima di uscire, diceva: – Formiche belle, adesso ve la scampate perché vado di corsa. Ma appena ho un attimo di tempo libero, vi schiaccio tutte. Quest'estate, per dire. Quest'estate, quando vado in ferie, vi stermino proprio.
Prima erano piccole, le formiche di casa di Paul. Formiche normali. Adesso sono diventate certe bestie che fanno spavento. Qualcuna è lunga pure tre dita. Pure mezzo palmo. E mezzo palmo di formica, brutta brutta, pelosa pelosa, ma non è mica uno scherzo. Sono cresciute un po' per volta, giorno dopo giorno.
– Sarà che sono ben nutrite, – dice Paul.
– Sarà che il mio Nesquik gli fa bene, alle formiche, – dice Paul.
E parlano, le formiche di casa di Paul. Mica chissà che discorsi; mica che si mettono lì e fanno il cabaret: però si fanno capire. A lui, per esempio, lo chiamano "Monsieur".
All'inizio era tutto un "Monsieur, bonjour", "Monsieur, bonsoir", "Monsieur, bonne nuit".
Che lui pensava: – Oh, almeno, sono formiche a modo. Educate, rispettose. Persino di compagnia.
Poi hanno incominciato: – Monsieur, ci fa la pasta al pomodoro? Monsieur, ci fa il caffè? Monsieur, la prossima volta che fa la spesa, per favore, si ricordi l'anguria.
Formiche esigenti, son diventate; e hai voglia a spiegargli che il caffè è meglio di no perché mette agitazione, e che per l'anguria siamo fuori stagione.
Una mattina, Paul s'è svegliato e gli mancava mezzo dito mignolo.
– E no, – ha fatto lui un po' risentito. – Così non va mica. Io mi sbatto per voi e questo è il ringraziamento?
– Erano finiti i cornflakes per la colazione, Monsieur, – gli hanno risposto tutte in coro.
L'invasione
Le formiche di casa di Paul, un po' per volta, si sono impossessate dell'appartamento. Il frigo, la tv, il pianoforte: è tutto loro. Hanno iniziato pure a chiamare le formiche amiche dagli appartamenti vicini, e giù a far feste tutte le sante sere. Sono diventate sempre di più e sempre più grosse. E hanno preso a minacciarlo che se ne parla a qualcuno – guai a lui – lo fanno a pezzettini e se lo mangiano vivo.
Una volta ne è arrivata una che era tutta sproporzionata e obesa, e gli ha consegnato addirittura la lista della spesa.
– Monsieur, le parlo a nome di tutte le formiche di questo edificio, – ha detto. – Ci servirebbero: i biscotti, il miele, il cioccolato, le pere e ovviamente l'anguria.
Paul s'è guardato quest'essere strano, brutto peloso e sproporzionato com'era, questi due etti e mezzo di formica, e ha risposto: – Ma certo, signore formiche. Mi diano pure la lista, che torno al più presto.
Ma poi, appena ha messo piede fuori, ha pensato: – Col cavolo che ci torno, là dentro.
– Saranno pure formiche, ma mangiano come cinghiali e si moltiplicano come conigli, – ha pensato Paul.
E però poi, invece, gli è venuta un'altra idea. È andato al supermercato e ha comprato un vestito da formica e se l'è messo. Dovevate vederlo, vestito da formica: era un figurino. Oh, quando è tornato a casa, ma mica l'hanno riconosciuto; l'hanno scambiato per una formica pure a lui.
Allora, preso dal gioco, Paul ha imitato quella vocina idiota che hanno loro e ha chiesto: – Ma dov'è finito il nostro Monsieur? Non è ancora tornato dalla spesa?
E una formica, ingenua ingenua, ha risposto: – Ancora no. Chissà dove si è cacciato. Se non ci porta tutto quello che abbiamo chiesto, stavolta lo facciamo a pezzettini e ce lo mangiamo per davvero.
– Ce lo mangiamo, il Monsieur, – ha ribadito un'altra.
E poi, tutte in coro: – Sì! Altro che, se ce lo mangiamo.
– Monsieur del cazzo, – ha detto una, maleducata, ridendo. E giù tutte a riderle dietro e ripetere: – Monsieur del cazzo, Monsieur del cazzo, ahahah!
E allora sarà che Paul si è spaventato, avranno riconosciuto l'espressione del viso, avranno riconosciuto l'odore... fatto sta che una l'ha indicato e ha detto: – Ma è lui il Monsieur, non lo vedete? È lui mascherato!
– È vero, è vero! – hanno iniziato a ripetere tutte, con quella loro vocina fastidiosa.
E hanno preso a inseguirlo, come bestie carnivore invasate.
Allora Paul è scappato fuori, è tornato di corsa al supermercato e ha comprato: i biscotti, il miele, il cioccolato, le pere e pure un'anguria coltivata in serra.
Pont des Arts
Paul mica mi guarda mai. Tiene gli occhi fissi davanti a sé. Non è che abbia lo sguardo perso, non è che sia assorto nei suoi pensieri. No: semplicemente, lui il collo non lo muove mai, e guarda solo quello che passa nel suo raggio visivo.
Mezz'ora fa, mentre passeggiavo su Pont des Arts, che pensavo ai fatti miei e ascoltavo le canzoni francesi, e guardavo i gruppi di ragazzi apparecchiati sul ponte col vino e il camembert, e gli innamorati con l'insalata e lo champagne, è successo che sono entrato improvvisamente nel raggio visivo di Paul. Lui mi ha urlato qualche cosa che non ho capito. Mi sono girato, ho sfilato le cuffie e l'ho visto, quest'uomo qua, che sembra proprio uscito a forza da una canzone di Brassens. Allora lui, con un tono un po' più dolce, mi ha chiesto se avevo da accendere. Io non fumo, ma da accendere ce l'ho sempre. Perché ho imparato che quando giri per Parigi, se appena appena hai un accendino in tasca, le possibilità di fare incontri interessanti si moltiplicano.
Paul non ci torna più, a casa. Quelle se lo mangiano vivo, mica scherzano.
Una sera, piuttosto, si è fatto coraggio, è andato da sua madre e le ha raccontato tutto. Lei all'inizio lo stava a sentire seria e gli diceva di provare col borotalco.
Poi, quando le ha spiegato bene, ha iniziato a piangere; altro che borotalco. Piangeva, piangeva, piangeva tanto che Paul le ha detto: – Mamma, non preoccuparti, lo so che è una brutta situazione ma sta' tranquilla: io non ci torno più a casa, e loro non mi mangiano.
Adesso, nel raggio visivo di Paul, entra una coppia. Lui è alto e lei è bionda. Lui ha uno zaino grandissimo e lei ha in mano una borsetta e un lucchetto. Si avvicinano al passamano del ponte, si guardano, attaccano il lucchetto in mezzo a un mucchio di altri lucchetti, contano un-deux-trois. Al trois, si baciano e buttano la chiave nella Senna.
Paul, finalmente, e pure un po' miracolosamente, gira il collo verso di me e dice con un tono neutro: – Questi so' matti.
Poi avvicina la mano destra al collo della mia polo e fa come per schiacciare qualcosa.
– Che fai? – gli chiedo.
Lui non risponde e invece schiaccia qualcos'altro all'altezza del mio ginocchio.
Poi schiaccia qualcosa per terra.
– Ma quante cazzo siete? – grida.
Quindi si alza, Paul, e incomincia a pestare a caso di qua e di là; a caso ma con precisione, eh, come dentro un ballo di San Vito scientifico. E certe volte addirittura scalcia. E dice l'equivalente francese di "pussa via" e agita le braccia. Si muove con frenesia sul ponte, che ormai è quasi pieno di gente, e lo guardano tutti.
– Ma queste sono proprio quelle di casa mia! – dice. – Ma adesso pure qua?
E salta via, un po' inseguito e un po' pure inseguendo, sempre pestando e scalciando e ogni tanto dando una specie di buffetto col dito a qualcuno, o passando una mano a spazzolare qualche spalla.
E salta, e corre e pesta.
– Monsieur, un cazzo! – lo sento ancora che urla, mentre si allontana dall'altra parte del ponte.
Le foto di questo post non sono mie. Le ho prese su internet e, detto tra noi, potrebbero anche essere coperte da copyright.
È che io ci sono tornato, l'altro giorno, su Pont des Arts, con la mia bella macchinetta fotografica, ma ho trovato una sorpresa: stavano smantellando tutto. Pare che il Comune di Parigi, proprio qualche settimana fa, abbia deciso di rimuovere i lucchetti perché il loro peso era diventato eccessivo e metteva a rischio la stabilità del ponte.
Non c'era neanche Paul.
[qui la versione audio]
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