La stazione di Poggio Rusco è un posto in cui non finisci per caso. Ci finisci se da Verona vai a Ferrara usando solo regionali, come la donna col cappello rosa e il vestito a fiori, o se in quel posto ci lavori e ci hai lavorato per decenni, come Giulio.
La prima volta che è entrato in questa stanzetta grigia, che fa da sala d'aspetto e biglietteria, Giulio aveva vent'anni ed era più biondo e più bello di adesso. La stanzetta, invece, era altrettanto grigia e altrettanto buia: da una parte, due panche di ferro che si guardano; dall'altra, uno sportello di legno, con una finestrella per chiedere informazioni e un foro centrale per far passare soldi e biglietti; uno di quei posti che viene da pensare siano proprio nati così e non abbiano mai profumato di nuovo, brillato di nuovo, saputo di nuovo.
La donna col cappello rosa e il vestito a fiori, seduta sulla panca di ferro, sta aspettando la coincidenza che arriverà da Suzzara, ma – dice l'altoparlante – arriverà con forte ritardo. È la classica situazione in cui, in letteratura, o avviene un delitto, o ti addormenti e sogni, o arriva qualcuno che ti siede vicino e ti racconta una storia.
Giulio, una storia da raccontare, ce l'ha. Quasi non fa altro che quello, dice: raccontare storie di altri, come fossero sue.
Dietro la finestrella dello sportello, un vecchietto coi baffi e gli occhiali spiega ad interlocutori scocciati il motivo del ritardo, con pazienza e vaghezza. Nelle pause tra un passeggero e l'altro, legge un giornale locale o un romanzo francese. Ogni tanto alza gli occhi. Quando incrocia quelli della donna, li spalanca e sorride. Quando incrocia quelli di Giulio, il socchiude e sorride.
Per venticinque anni, da dietro quella stessa finestrella, Giulio aveva staccato biglietti a tariffa chilometrica, recitato orari dei treni, contato resti. In quei giorni – tutti i giorni –, finito l'orario di lavoro si metteva a sedere fuori, su una panca davanti ai binari, e guardava passare esattamente tre treni: la gente che attendeva, la gente che saliva, la gente che scendeva: i baci gli abbracci e le sigarette. Dopo il terzo treno, tornava a piedi dalla moglie e mangiavano il minestrone.
Finché, a quarantacinque anni e mezzo, aveva avuto improvvisamente voglia di vedere da vicino come fosse fatta la libertà, e magari fissarla negli occhi e scorrerle una mano sui capelli, come in cerca di doppie punte. Una sera, finito il lavoro, e passato il terzo treno, anziché tornare a casa, ne aveva aspettato un quarto. Non avendo nessuno da abbracciare o baciare, aveva fumato una sigaretta e poi era salito sul treno. Quello andava a Bologna. Da lì, ne aveva preso uno per Milano. Poi uno per Torino. Poi tutta un'altra serie di regionali e locali, che in qualche giorno l'avevano portato a Parigi.
Dalle finestre della pensione sul Canal Saint-Martin, vedeva barboni, prostitute, ragazzi impegnatissimi nei loro picnic. Era il posto più vicino ai romanzi di Maigret che fosse riuscito a trovare. La mattina passeggiava lungo il canale; il pomeriggio andava a Gare de l'Est a guardare i treni francesi; la sera raccontava storie di altri alla proprietaria della pensione. C'era un patto, tra di loro: se la storia le piaceva, allora la cena era gratis; se finivano a letto, allora la notte in albergo era gratis.
Un giorno era entrato nella pensione un commissario di polizia, con la pipa e il taccuino. Dentro il canale è stato trovato il corpo di un uomo fatto a pezzi, aveva detto alla donna della pensione. Le ricerche hanno riportato a galla tutti i pezzi tranne la testa, aveva aggiunto. Sarà un qualche barbone, aveva concluso. La donna era rimasta in silenzio. Poi aveva fissato la pipa del commissario. Poi era scoppiata a piangere. No, credo di sapere chi è, aveva bisbigliato.
Davanti al cadavere ricomposto pezzo a pezzo, era stata sul punto di svenire e vomitare. Il commissario l'aveva implorata di guardare con attenzione, l'aveva sostenuta tra le sue braccia, ne aveva raccolto il vomito in un sacchetto. La donna aveva continuato a esplorare quel corpo che aveva imparato a conoscere bene. Finalmente, si era immobilizzata e aveva fatto movimenti decisi col braccio e col capo, che significavano chiaramente è lui, non ho dubbi, interrompiamo questo supplizio. Quindi, si era appoggiata a una sedia e aveva tirato fuori anche il suo ultimo decilitro di bile.
L'aeroporto Charles de Gaulle era diverso da tutte le stazioni che Giulio avesse mai visto. Intorno a lui, c'erano qualche bacio e qualche abbraccio, ma senza troppa magia, e assolutamente nessuna sigaretta. Era stato un attimo. La libertà, gli era bastato guardarla negli occhi da vicino, e sentirne l'odore acre. Aveva tirato fuori dalla tasca il biglietto e aveva iniziato a cercare, nello scritto a caratteri minuscoli del retro, qualche clausola per eventuali rimborsi.
La sera era tornato alla pensione, camminando stancamente. La donna della pensione l'aveva guardato come si guarda un morto tre giorni dopo che è morto. Fregandosene della testa, ne aveva squadrato il corpo, soprattutto: dal collo ai piedi all'ombelico. Dove sei stato?, aveva domandato. Un viaggio d'affari, aveva risposto lui. Quali affari?, aveva chiesto lei.
La donna aveva chiamato immediatamente la questura e s'era fatta passare il commissario. È tornato, gli aveva detto, era in viaggio per affari. D'accordo, aveva risposto il commissario, sarà stato un qualche barbone. Quindi Giulio aveva posato la valigia, aveva abbracciato la donna e le aveva raccontato una storia, a cui erano seguite una cena e una notte d'albergo non pagate.
Il mattino seguente, all'alba, aveva rimesso in piedi la sua catena di treni regionali e locali, intervallati solo da sigarette fumate in fretta tra una coincidenza e l'altra. Aveva lasciato la Francia due giorni dopo. Torino, Milano, Bologna, Poggio Rusco.
Sua moglie era in cucina, vestita di nero, che girava il minestrone. L'aveva guardato come si guarda un marito storyteller, che sai che ne avrà sempre un'altra da raccontare. Ne aveva fissato la testa, soprattutto. Dicevano che eri stato ripescato morto in un canale di Parigi, aveva sussurrato, continuando a girare il minestrone. Ma no, aveva detto lui, ero in viaggio per affari. Quali affari?, aveva chiesto lei.
L'altoparlante dice che la coincidenza da Suzzara arriverà tra cinque minuti sul binario 1.
– È una storia vera? – domanda la donna col cappello rosa e il vestito a fiori. Mentre lo dice, si passa un dito tra i capelli, a maledire le doppie punte. Non si è addormentata e non c'è stato nessun delitto.
L'uomo la guarda senza rispondere. Si alza, si avvicina allo sportello, sposta con il braccio una signora che sta aspettando il resto. Quindi, si appoggia coi gomiti sul banco dello sportello e fissa serio, dall'altra parte del vetro, il vecchietto coi baffi e gli occhiali.
– È una storia vera?