questo non è un blog su come trovare casa a parigi, ma magari così qualcuno ci finisce sopra per sbaglio
giovedì 16 aprile 2015
la verità sul gobbo di notre dame
Quello che segue è un molto libero adattamento da un manoscritto ritrovato nell'abitazione parigina di Victor Hugo. Eventuali imprecisioni sono dovute alla mia approssimativa conoscenza del francese dell'Ottocento, nonché alla pessima calligrafia dello scrittore. Me ne scuso.
Piazza dei Volsci
Mancano ancora sedici arrondissement, ma nella mia classifica provvisoria, Place des Vosges è assolutamente la piazza più bella di Parigi. In mezzo, c'è un giardino da picnic con fontana; tutt'intorno, arcate, negozi a modo, antiquari, sale da tè. Siamo ancora nel Marais: è il Quarto visto dal Terzo, o il Terzo visto dal Quarto, e a me sembra tutto molto colorato e vivo.
Non escludo che sul mio giudizio pesino alcune situazioni contingenti, che vado ad elencare:
(i) innanzitutto, è la domenica pomeriggio in cui, a Parigi, è arrivata ufficialmente la primavera e devo ammettere che io ero un po' scettico (un collega mi aveva giurato che sarebbe arrivata, ma l'aveva fatto in francese e non ero sicurissimo di aver capito);
(ii) è la domenica in cui mi sono finalmente messo alle spalle una scadenza di lavoro, inviando un paper a una conferenza, e allora può darsi che a me sembri ancora più primavera di quella che è;
(iii) il nome di questa piazza mi riporta ricordi piacevoli di gioventù. Perché la associo, per una sciocca assonanza, a Via dei Volsci, che è una strada di San Lorenzo, a Roma, dove negli anni dell'università c'era un pusher particolarmente simpatico e preparato. Tipo che io poi tornavo a casa e ridevo da solo come in questo momento, o scrivevo deliri come quello che segue;
(iv) infine – e giusto perché mi piace farmi degli amici – è una domenica pomeriggio in cui la Lazio ha vinto quattro a zero e ha sorpassato la Roma.
Il gobbo di Notre Dame for Dummies
Io non ho mai letto Victor Hugo, non ho mai visto il Classico Disney e non ho mai assistito al musical di Riccardo Cocciante. Però ho passato qualche mezzora su Wikipedia e Youtube, che vado a riassumervi nelle righe che seguono.
Il gobbo di Notre Dame si chiama Quasimodo, fa il campanaro e, oltre a essere gobbo, è pure sordo per via delle campane e semimuto per via della solitudine. La protagonista femminile si chiama Esmeralda ed è una zingara, ovviamente bellissima. Come sempre, c'è un cattivo, ed è l'arcidiacono Frollo; come spesso, c'è un cretino, ed è il capitano delle guardie.
La trama del romanzo è che sono tutti innamorati di Esmeralda e tentano a turno, ma a volte anche contemporaneamente, di conquistarla.
Frollo prova a rapirla con l'aiuto di Quasimodo. Il capitano delle guardie li scopre e tenta a sua volta di sedurre Esmeralda, dandole appuntamento in una camera d'albergo. Se non che, con almeno un secolo d'anticipo rispetto ai film con Lino Banfi e la Fenech, nell'armadio della camera d'albergo è andato a nascondersi l'arcidiacono Frollo, che sul più bello salta fuori e pugnala il capitano. Del delitto è accusata Esmeralda, che viene però liberata da Quasimodo e portata in salvo dentro Notre Dame. In seguito a una rivolta degli zingari, che vi risparmio, Esmeralda si trova di nuovo di fronte a Frollo, ma ne rifiuta l'amore e piuttosto si lascia condannare e impiccare. Quasimodo, per vendetta, afferra Frollo e lo butta giù dalla torre della cattedrale; quindi, con almeno due secoli di ritardo rispetto a Romeo e Giulietta, va ad addormentarsi e morire sul cadavere dell'amata.
Il Classico Disney è più o meno uguale, solo che i buoni sono ancora più buoni, i cattivi ancora più cattivi, i belli più belli e i brutti più brutti. Io non ho mai amato i Classici Disney: da bambino, non sopportavo il fatto che, appena la storia iniziava un po' a prenderti, la interrompevano con una canzone e un balletto. Li ho recuperati, in parte, qualche anno più avanti, quando, scoperta la funzionalità del tasto fast forward, riuscivo finalmente a vedere un intero Classico in venti minuti, saltando regolarmente il cantato.
Il manoscritto
Oltre agli antiquari e alle sale da tè, su Place des Vosges si affaccia la Maison de Victor Hugo, che è la casa dove lo scrittore ha vissuto per tipo sedici anni. Una guida ci porta a spasso tra le sale e ci sfida a scovare le iniziali che Hugo e la sua compagna hanno inciso un po' dappertutto. Vince un ragazzino antipatico, che trova un V.H. sull'anta di un armadio e continua a mostrarlo a tutti. Per togliermelo di torno, mentre il gruppo si sposta in camera da letto, rimango a curiosare nello studio.
E qui devo chiedervi un piccolo aiuto. Vi inviterei, da qui alla fine, a sospendere l'incredulità, come ci ha insegnato Coleridge, e ad accettare, per esempio, che sotto una delle gambe di un tavolino – evidentemente, come si usa, per non farlo ballare – sia nascosto un foglio ingiallito ripiegato in otto, che io raccolgo incuriosito. Riporta in calce la stessa sigla V.H. che sta sull'anta dell'armadio. E in alto, l'intestazione "La vérité sur le bossu de Notre Dame".
Non è facile da decifrare: il mio francese è quello che è, e la grafia di Victor Hugo davvero penosa. Ci sono zampe di gallina. Ci sono accenti un po' gravi e un po' acuti. Ci sono parole fuori contesto. Sembra scritto a mano ma col T9.
Comunque, quello che riesco a leggerci ha dell'incredibile.
Me ne frego del secondo piano, esco e mi dirigo rapidamente verso Notre Dame.
Il bastone per i selfie
Sono talmente di buonumore, questa domenica pomeriggio, che guardo con simpatia anche il giapponesino che si fa i selfie col bastone, davanti alla cattedrale.
Mi sembra un'immagine molto bella. Perciò mi avvicino e gli chiedo, in vari modi, prima in inglese poi in francese e infine a gesti come Quasimodo, se posso fargli una foto per un blog.
Lui ad ogni mio tentativo fa sì con la testa, come sempre fanno i giapponesi, in risposta a qualsiasi domanda, persino quelle che cominciano con "Antani".
Ma le sue interpretazioni sono, nell'ordine:
– che l'ho visto in difficoltà e, se vuole, sono disponibile a fargli una foto;
– che gli sarei grato se mi prestasse il bastone;
– che avrei bisogno di qualche moneta per un panino.
Decido di fare un ultimo tentativo, impegnandomi sul serio, e indicando distintamente prima lui e il suo bastone, poi me e la mia macchina fotografica, infine mimando un click.
Lui stavolta è addirittura raggiante. Ride, sorride e, fatto ovviamente sì con la testa, mi indica un punto alla sua sinistra: la bancarella dove ha comprato il bastone. Solo 10 euro, dice. Vari colori.
– Thank you! Enjoy Paris! – rispondo anch'io raggiante, perché questa domenica pomeriggio sono proprio di buonumore.
Mentre faccio la fila per entrare, mi dico che se per caso capito di nuovo in una situazione del genere, accetto le monete per il panino e la chiudo lì.
Questo ucciderà quello
"Le cattedrali sono Bibbie di pietra", scriveva Victor Hugo. E un'altra cosa che scriveva è: "questo ucciderà quello", dove "questo" sta per la stampa e "quello" sta per le cattedrali. Un mio amico del liceo, con questa citazione, ci ha svoltato metà degli esami di Scienze della Comunicazione, opportunamente modulando, di volta in volta, in funzione della materia, soggetto e oggetto della frase. La stampa ucciderà le cattedrali. La fotografia ucciderà la pittura. Il cinema ucciderà la fotografia. Internet ucciderà la letteratura.
Io so benissimo perché Victor Hugo era entusiasta della stampa: perché a mano scriveva da cani. Ma non ci perdiamo in chiacchiere; c'è un mistero da svelare, dice il manoscritto.
Salgo le scale della torre. Scandisco cinquantanove gradini. Scovo le iniziali V.H. graffiate sulla terza pietra (contando dal basso) della sesta colonna (contando da sinistra). Aspetto che nessun turista mi abbia nel suo raggio visivo e premo la pietra. C'è un doppio click, come di mouse, e un minuscolo passaggio che si apre.
Una luce fioca, una musica tzigana, una voce incantevole che canta in francese dell'Ottocento. La seguo lungo il cunicolo. C'è una porta aperta. Entro senza bussare.
La ragazza che canta ha tratti da zingara ed è bellissima, anche più dell'Esmeralda del romanzo.
– Sei bella come l'Esmeralda del Classico Disney, – le dico.
– Grazie.
– E hai una voce incantevole.
– Come nel Classico Disney... – suggerisce lei.
– Non saprei... Ho sempre mandato avanti sul cantato.
I suoi trentadue denti, bianchissimi e tzigani, sorridono.
– Ma... sei davvero Esmeralda?
– Sono una sua discendente.
– Impossibile. Esmeralda non aveva figli.
– Uno.
– Da Frollo?
– Da Quasimodo. Mentre erano rifugiati a Notre Dame. Censura dell'epoca.
– Pensa te... Ma tu non hai preso niente da lui.
– No, io vengo più dal lato di lei. Mio fratello ha preso un po' da lui.
– Hai pure un fratello?
– Vive in Italia. Forse lo conosci.
Tira fuori una borsetta tzigana e dalla borsetta una foto.
A questo punto – Victor mio – nel manoscritto c'è una frase che proprio non si capisce. La interpreto liberamente piazzando un rintocco di campane, che secondo me ci sta bene. Mi porto le mani alle orecchie, aspetto che finisca, e finalmente guardo la foto.
Oddio. È proprio lui. Giovanissimo. Ma riccissimo e bassissimo come adesso.
– Questo spiega tante cose...
– Aspetta un attimo, – dice Esmeralda, che intanto mi ha preso dalle mani il manoscritto e lo sta leggendo incuriosita. – Tu non puoi essere qui.
– In che senso?
– Non puoi essere dentro un manoscritto in cui c'è scritto che tu trovi il manoscritto.
– Perché?
– Ma come perché? Non funziona. È come l'ateniese che dice che gli ateniesi sono mentitori. Oppure la frase che dice "questa frase è falsa". È incoerente.
– Ah... Quindi io dovrei essere fuori, che trovo il manoscritto... ma poi non comparire nel manoscritto?
– Esatto. Però sappi che poi è incompleto, – dice la pronipote di Quasimodo e di Gödel.
– Un po' d'elasticità, – faccio io. – È letteratura: si sospende l'incredulità. Lo diceva pure Coleridge...
Il pianista sulla Senna
Mentre ripercorro a tutta velocità la strada verso Place des Vosges, rido ancora da solo. Sono passati dieci anni, ma evidentemente il pusher di Via dei Volsci era proprio competente. Arrivato su Pont d'Arcole, mi fermo di colpo. C'è un po' di gente che guarda da una parte. C'è un pianoforte su un lato del ponte. C'è un uomo che suona il pianoforte, con le spalle al pubblico e lo sguardo sulla Senna. Come se suonasse per i pesci. Sta eseguendo Il tempo delle cattedrali. E, sì, ad essere precisi, è un po' più alto e molto meno riccio, ma a me piace pensare che sia proprio lui.
L'unico modo per fotografarlo in volto sarebbe usare un bastone da selfie. Avrei potuto comprarlo per soli dieci euro ma non l'ho fatto. Grande invenzione, mi convinco in un istante. Non c'è riuscita la stampa e non c'è riuscita la fotografia, ma vuoi vedere che il bastone per i selfie ucciderà le cattedrali? Permette di parlare di se stessi, da fuori, stando dentro. Anche Gödel ne sarebbe turbato.
Mentre mi allontano, attraversando il ponte, sento delle note familiari. Non riesco a crederci. O era proprio roba buona, o lui sta davvero intonando "io non posso stare fermo con le mani nelle mani..."
Già che ci siamo, approfitto ancora un attimo di Coleridge.
Per dire, in quel condizionale passato che in realtà serve a parlare del futuro, che la primavera parigina sarebbe proseguita per almeno sei mesi, che il paper inviato alla conferenza sarebbe stato accettato nel giro di qualche settimana, che il pusher di Via dei Volsci avrebbe sposato una francese e, per amore delle sciocche assonanze, si sarebbe trasferito a Place des Vosges, e che il sabato successivo, cioè sabato, la Lazio avrebbe vinto due a zero a Torino contro la Juve con una doppietta di – e qui, Victor mio, proprio non si legge... ma no, dai, possibile?!? – Cavanda.
Ecco. Ho finito. Adesso potete pure riattivare l'incredulità.
V.H.
NdT:
Per chi se lo stesse domandando: il manoscritto, opportunamente piegato in otto, si trova ora sotto una delle gambe della mia scrivania. Ha risolto un problema che si protraeva da almeno cinque mesi.
mercoledì 1 aprile 2015
birdman nel marais
Marais
Le attrazioni principali di Parigi sono la Tour Eiffel, Notre Dame e la tessera Illimité.
Quest'ultima è una carta che costa venti euro al mese e ti permette di vedere tutti i film che vuoi, tutte le volte che vuoi, in quasi tutti i cinema di Parigi. Per uno come me, è pericolosissima: per dire, un sabato pomeriggio sono entrato in una sala e ho guardato tre film di fila.
Pioveva. Ma lo so che non è una giustificazione.
Quest'ultima è una carta che costa venti euro al mese e ti permette di vedere tutti i film che vuoi, tutte le volte che vuoi, in quasi tutti i cinema di Parigi. Per uno come me, è pericolosissima: per dire, un sabato pomeriggio sono entrato in una sala e ho guardato tre film di fila.
Pioveva. Ma lo so che non è una giustificazione.
– Kebab! – dico io, appena usciti dall'MK2, perché a me il cinema americano mette appetito.
– Per me, leggero falafel vegano. Che tra due ore si va in scena...
Libbe apre le braccia e cammina sulle punte davanti a me, ondeggiando a destra e sinistra. Credo voglia mimare un uccello.
– Assomiglio un po' a Emma Stone?
– Uguale.
C'è un posto, nel Marais, che si chiama l'As Du Fallafel, dove fanno un falafel kosher che vale ognuno dei venti minuti di fila che c'è fuori. Libbe mi guida da quella parte, lungo un percorso che alterna hôtel particulier, atelier, negozi di moda.
Il Marais ha un grande fascino. Ma non ci andate mai di sabato pomeriggio. Intanto perché c'è una folla che ne sfascia la magia. E poi perché sulla porta dell'As Du Fallafel, rischiate di leggere il cartello che leggiamo noi: "Questo è un locale kosher. Il sabato siamo chiusi". Più sotto, col pennarello rosso, qualcuno ha aggiunto: "E comunque qui siamo nel Quarto".
– Che significa l'ultima frase?
– Boh, niente, quella deve essere per me.
Riprendiamo a camminare, ma stavolta guido io e la trascino verso nord, nella parte sfigata del Marais, fatta di strade quasi deserte e negozi di abbigliamento chiusi. Proprio quello che cercavo.
Falafel
Il libanese domanda qualcosa di incomprensibile e io rispondo, al buio, "solo ketchup". Perché ho imparato che la prima domanda, in tutti i kebab di Parigi, è sempre quale salsa vuoi. Non so il motivo. È l'ultima cosa che mettono nel panino, ma la prima che vogliono sapere.
– Bello 'sto posto, – dice Libbe, annusandosi la manica del giaccone per capire se sta prendendo di fritto.
– Il bello è brutto, il brutto è bello...
– Eh?
– Shakespeare.
– Shakespeare. Me porti a magnà dal kebabbaro e poi citi Shakespeare...
– Senti, se Inarritu cita il Macbeth a cazzo e ci vince l'Oscar, posso farlo pure io dal kebabbaro.
–
– O su un blog che leggono quattro persone.
– Quattro?
– Eh.
– Hai contato pure tu' madre?
– Mamma non c'ha manco internet.
–
– Ci sediamo?
– No. Fuori. Fritto. Puzza.
– Che poi di cosa parliamo, quando parliamo d'odore?
– Questa l'ho capita!
Ci schiacciamo un cinque impacciato, il mio panino kebab contro il suo panino falafel, e un secondo più tardi siamo fuori.
– Niente, all'inizio doveva essere un flash mob. Poi la cosa ci ha preso la mano e si è fatta un po' più seria. Lo facciamo all'aperto. In un parco.
– Et... c'est quoi?
– Théâtre du movement. Sul volo. Uccelli, aerei, nuvole, questa roba qua. Io arrivo nel finale e sbaraglio tutti.
– Non avevo dubbi.
– Sto in scena con uno. Si chiama Francois.
– Carino?
– Un figo. Però sbaglia pettinatura. C'ha una riga da una parte che nun se pò véde.
Sediamo per terra, in un angolo dello Square du Temple, panino in mano e lattine sull'erba, come se avessimo, rispettivamente, quindici anni di meno e dodici anni di meno.
– Ma Birdman c'entra qualcosa?
– Macché, la regista argentina s'è pure incazzata quando ha visto che usciva il film. Ha detto: penseranno che abbiamo copiato.
– Argentina?
– Brava. Un po' criptica. Matta come un cavallo.
– Un cavallo della Pampa...
– Ma assomiglio un po' a Emma Stone?
– Se ti fai crescere i capelli. E li tingi. E magari, già che ci sei, tingi pure gli occhi di verde. E cancelli la voglia sotto il mento... Ecco, sul resto, ci siamo: l'aria da tossica ce l'hai. E anche il seno piccolo.
– Stronzo, – dice, e mi dà un calcetto a uno stinco.
E io penso istantaneamente che quel calcetto allo stinco ha la stessa funzione di un'emoticon. Vuol dire Ti ho detto stronzo ma non è che pensi davvero che sei uno stronzo, quindi non prendertela. Fossimo stati in chat, avrebbe scritto: Stronzo, invio, Faccina che fa l'occhiolino, invio. E mi domando perché, adesso che siamo dal vivo, e dopo lo Stronzo potrebbe tranquillamente fare l'occhiolino, invece mi dà un calcetto a uno stinco. Siamo comunicatori complicati. Metteteci che lei è pure una mezza attrice. E del resto considerate che se nella vita reale facessimo tutti gli occhiolini che facciamo in chat, sembreremmo una massa di pazzi isterici in preda a tic nervosi.
– Ascolta: tu devi fare un video, eh... Riprendi tutto: dall'inizio alla fine.
– Ma no, dai, fammelo godere.
– Che?
– Voglio vivermelo, non vedervi da dietro la camera.
– Poca filosofia. Ti siedi in prima fila e fai il video.
Birdgirl
La regista argentina matta ha scelto il Jardin Anne-Frank, perché in un angolo c'è una galleria di legno semicircolare che le ricorda, e in effetti un po' ricorda, una voliera.
Da sinistra, parte un rap di parole francesi sparate a raffica. Da destra, entrano sei ragazzi con maschere di uccelli, vestiti di nero – il nero è neutro e lascia spazio all'immaginazione, mi spiegherà Libbe il mattino dopo. La musica si abbassa fino a scomparire e i ragazzi-uccello riempiono lo spazio, simulando volo e movimenti. Qualcuno imita pure versi strani.
Tolta la maschera, si sdraiano a terra. Rotolano, scivolando gli uni sugli altri e creando una coreografia che a me ricorda le onde del mare – e invece era la formazione delle nuvole, mi spiegherà Libbe, è per questo che poi sono entrati altri due ragazzi-uccello che venivano sballottati da una parte all'altra come dentro un temporale; ah, ecco.
Poi gli uomini-uccello si dispongono in circolo e in mezzo ce n'è uno bendato; quelli nel cerchio ruotano in senso orario, mentre quello bendato si butta a peso morto dove capita; i compagni lo sorreggono facendo da rete e plasticamente lo riportano al centro, in un meccanismo che a me ricorda il girotondo e la mosca cieca – e invece quello era l'apprendimento del volo, mi spiegherà Libbe, tant'è che poi i ragazzi-uccello nel cerchio si sono accovacciati per simboleggiare la crescita del ragazzo-uccellino al centro, che, ramingo e un po' impacciato, ha finalmente spiccato il volo; ah, ecco.
E infine entrano nella voliera Libbe e Francois. Libbe arriva da sinistra, leggerissima, mentre Francois entra da destra, un po' più legnoso ma oggettivamente un bel ragazzo – eravamo io un pettirosso e lui un corvo, mi spiegherà Libbe; ma questo l'avevo capito anche da solo.
Volteggiano per un po', sopra una musica che si è fatta classica. Quindi entrano altri, a comporre un pavimento di rocce. Libbe ci saltella sopra, spalanca le ali e declama in inglese "se l'anima tua col suo volo deve trovare il cielo, dovrà trovarlo stasera", perché evidentemente anche la regista argentina c'ha la citazione facile. Nelle parole di Libbe, si sente un po' l'accento romano, però va detto che in scena ha un magnetismo che ce l'ha solo lei. Per dire, nel frattempo ha tirato via la maschera dal viso, ma a me sembra ancora più pettirosso di prima. È l'espressione neutra il tuo pezzo forte – le dirò il mattino dopo. Le viene naturale. Secondo me – ma questo non glielo dirò – perché si allena costantemente nella vita quotidiana. È lo stesso, identico sguardo di quando le chiedo qualcosa a cui non vuole rispondere, e lei fa finta di non aver sentito e continua a digitare sullo smartphone.
– Si sentiva l'accento romano?
– Per niente.
– L'accento italiano?
– Ma no. Sei stata fortissima.
Libbe è ancora rossa di adrenalina in viso. Io tiro fuori il mazzo di fiori.
– Quelli che volevi non c'erano...
Lei sorride, ringrazia e – buttalo via – mi dà un bacetto sulla fronte.
– Il video?
– Una bomba. Un unico piano sequenza dall'inizio alla fine.
– Grande! Senti, devo andare, che do una mano a sistemare. Grazie che sei venuto, davvero.
– E ci mancherebbe... Ci vediamo stasera?
– Ci sentiamo domani mattina, – e qui fa veramente un occhiolino, che io neanche capisco bene cosa voglia dire, perché ormai, fuori chat, non so più decifrarli.
Si allontana verso il camerino improvvisato, elegante e un po' solenne, tenendo il mazzo di fiori come un paggetto tiene le fedi. Il piano sequenza la seguirebbe volentieri anche dentro.
Francois si sta rivestendo. La regista argentina entra di corsa, dà un bacio sul naso a Libbe, una pacca sulla spalla a Francois, fa i complimenti a entrambi.
– Avete un futuro, – dice mentendo come si fa in questi casi.
– Lui sì. Io ormai so' vecchia, – risponde Libbe in spagnolo. La regista ride. Francois non capisce ma ride anche lui. È un po' idiota, ma oggettivamente un bel ragazzo.
– Devo cambiarmi qui anch'io? – chiede Libbe.
– È il teatro, cherie...
Il piano sequenza segue la regista argentina matta che esce dal camerino, accende una sigaretta, la tiene in mano appoggiata a una panchina, non la fuma – sta cercando di smettere, mi spiegherà Libbe, per ora riesce a rinunciare alla nicotina ma non alla gestualità, quindi accende sigarette e le tiene in mano; ah, ecco.
La regista si allontana, ma la camera resta fissa e dopo un secondo arrivano Libbe e Francois.
Libbe si siede col sedere sull'estremità dello schienale e i piedi dove andrebbe il sedere, perché lei è una che mette del suo anche in un gesto banale come sistemarsi su una panchina. Poi inclina collo e testa all'indietro e fa per lasciarsi cadere.
– Non è abbastanza alto, – dice Francois.
Libbe lo fissa e scuote la testa. Chiude gli occhi. Si concentra. Fa arrivare telecinesicamente un pettine dal camerino e gli cancella quella cavolo di riga da una parte. Coi capelli arruffati, è oggettivamente ancora più bello.
– Come sto? – chiede lui.
– Truth or Dare? – chiede lei.
– Eh?
– Truth or Dare?
– Non ho capito la seconda.
– Truth. Or. Dare.
– Truth!
– You're boring.
– E allora l'altra...
Libbe lo prende per una mano e lo trascina via, dietro i camerini, fuori del parco, in qualche posto dove il mio sguardo non riesce a seguirli, ma il solito piano sequenza ovviamente sì.
E a questo punto, sappiate che avrei scritto una chiusa bellissima, ma non la pubblico per non spoilerare il finale del film a chi non l'ha ancora visto.
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