Marais
Le attrazioni principali di Parigi sono la Tour Eiffel, Notre Dame e la tessera Illimité.
Quest'ultima è una carta che costa venti euro al mese e ti permette di vedere tutti i film che vuoi, tutte le volte che vuoi, in quasi tutti i cinema di Parigi. Per uno come me, è pericolosissima: per dire, un sabato pomeriggio sono entrato in una sala e ho guardato tre film di fila.
Pioveva. Ma lo so che non è una giustificazione.
Quest'ultima è una carta che costa venti euro al mese e ti permette di vedere tutti i film che vuoi, tutte le volte che vuoi, in quasi tutti i cinema di Parigi. Per uno come me, è pericolosissima: per dire, un sabato pomeriggio sono entrato in una sala e ho guardato tre film di fila.
Pioveva. Ma lo so che non è una giustificazione.
– Kebab! – dico io, appena usciti dall'MK2, perché a me il cinema americano mette appetito.
– Per me, leggero falafel vegano. Che tra due ore si va in scena...
Libbe apre le braccia e cammina sulle punte davanti a me, ondeggiando a destra e sinistra. Credo voglia mimare un uccello.
– Assomiglio un po' a Emma Stone?
– Uguale.
C'è un posto, nel Marais, che si chiama l'As Du Fallafel, dove fanno un falafel kosher che vale ognuno dei venti minuti di fila che c'è fuori. Libbe mi guida da quella parte, lungo un percorso che alterna hôtel particulier, atelier, negozi di moda.
Il Marais ha un grande fascino. Ma non ci andate mai di sabato pomeriggio. Intanto perché c'è una folla che ne sfascia la magia. E poi perché sulla porta dell'As Du Fallafel, rischiate di leggere il cartello che leggiamo noi: "Questo è un locale kosher. Il sabato siamo chiusi". Più sotto, col pennarello rosso, qualcuno ha aggiunto: "E comunque qui siamo nel Quarto".
– Che significa l'ultima frase?
– Boh, niente, quella deve essere per me.
Riprendiamo a camminare, ma stavolta guido io e la trascino verso nord, nella parte sfigata del Marais, fatta di strade quasi deserte e negozi di abbigliamento chiusi. Proprio quello che cercavo.
Falafel
Il libanese domanda qualcosa di incomprensibile e io rispondo, al buio, "solo ketchup". Perché ho imparato che la prima domanda, in tutti i kebab di Parigi, è sempre quale salsa vuoi. Non so il motivo. È l'ultima cosa che mettono nel panino, ma la prima che vogliono sapere.
– Bello 'sto posto, – dice Libbe, annusandosi la manica del giaccone per capire se sta prendendo di fritto.
– Il bello è brutto, il brutto è bello...
– Eh?
– Shakespeare.
– Shakespeare. Me porti a magnà dal kebabbaro e poi citi Shakespeare...
– Senti, se Inarritu cita il Macbeth a cazzo e ci vince l'Oscar, posso farlo pure io dal kebabbaro.
–
– O su un blog che leggono quattro persone.
– Quattro?
– Eh.
– Hai contato pure tu' madre?
– Mamma non c'ha manco internet.
–
– Ci sediamo?
– No. Fuori. Fritto. Puzza.
– Che poi di cosa parliamo, quando parliamo d'odore?
– Questa l'ho capita!
Ci schiacciamo un cinque impacciato, il mio panino kebab contro il suo panino falafel, e un secondo più tardi siamo fuori.
– Niente, all'inizio doveva essere un flash mob. Poi la cosa ci ha preso la mano e si è fatta un po' più seria. Lo facciamo all'aperto. In un parco.
– Et... c'est quoi?
– Théâtre du movement. Sul volo. Uccelli, aerei, nuvole, questa roba qua. Io arrivo nel finale e sbaraglio tutti.
– Non avevo dubbi.
– Sto in scena con uno. Si chiama Francois.
– Carino?
– Un figo. Però sbaglia pettinatura. C'ha una riga da una parte che nun se pò véde.
Sediamo per terra, in un angolo dello Square du Temple, panino in mano e lattine sull'erba, come se avessimo, rispettivamente, quindici anni di meno e dodici anni di meno.
– Ma Birdman c'entra qualcosa?
– Macché, la regista argentina s'è pure incazzata quando ha visto che usciva il film. Ha detto: penseranno che abbiamo copiato.
– Argentina?
– Brava. Un po' criptica. Matta come un cavallo.
– Un cavallo della Pampa...
– Ma assomiglio un po' a Emma Stone?
– Se ti fai crescere i capelli. E li tingi. E magari, già che ci sei, tingi pure gli occhi di verde. E cancelli la voglia sotto il mento... Ecco, sul resto, ci siamo: l'aria da tossica ce l'hai. E anche il seno piccolo.
– Stronzo, – dice, e mi dà un calcetto a uno stinco.
E io penso istantaneamente che quel calcetto allo stinco ha la stessa funzione di un'emoticon. Vuol dire Ti ho detto stronzo ma non è che pensi davvero che sei uno stronzo, quindi non prendertela. Fossimo stati in chat, avrebbe scritto: Stronzo, invio, Faccina che fa l'occhiolino, invio. E mi domando perché, adesso che siamo dal vivo, e dopo lo Stronzo potrebbe tranquillamente fare l'occhiolino, invece mi dà un calcetto a uno stinco. Siamo comunicatori complicati. Metteteci che lei è pure una mezza attrice. E del resto considerate che se nella vita reale facessimo tutti gli occhiolini che facciamo in chat, sembreremmo una massa di pazzi isterici in preda a tic nervosi.
– Ascolta: tu devi fare un video, eh... Riprendi tutto: dall'inizio alla fine.
– Ma no, dai, fammelo godere.
– Che?
– Voglio vivermelo, non vedervi da dietro la camera.
– Poca filosofia. Ti siedi in prima fila e fai il video.
Birdgirl
La regista argentina matta ha scelto il Jardin Anne-Frank, perché in un angolo c'è una galleria di legno semicircolare che le ricorda, e in effetti un po' ricorda, una voliera.
Da sinistra, parte un rap di parole francesi sparate a raffica. Da destra, entrano sei ragazzi con maschere di uccelli, vestiti di nero – il nero è neutro e lascia spazio all'immaginazione, mi spiegherà Libbe il mattino dopo. La musica si abbassa fino a scomparire e i ragazzi-uccello riempiono lo spazio, simulando volo e movimenti. Qualcuno imita pure versi strani.
Tolta la maschera, si sdraiano a terra. Rotolano, scivolando gli uni sugli altri e creando una coreografia che a me ricorda le onde del mare – e invece era la formazione delle nuvole, mi spiegherà Libbe, è per questo che poi sono entrati altri due ragazzi-uccello che venivano sballottati da una parte all'altra come dentro un temporale; ah, ecco.
Poi gli uomini-uccello si dispongono in circolo e in mezzo ce n'è uno bendato; quelli nel cerchio ruotano in senso orario, mentre quello bendato si butta a peso morto dove capita; i compagni lo sorreggono facendo da rete e plasticamente lo riportano al centro, in un meccanismo che a me ricorda il girotondo e la mosca cieca – e invece quello era l'apprendimento del volo, mi spiegherà Libbe, tant'è che poi i ragazzi-uccello nel cerchio si sono accovacciati per simboleggiare la crescita del ragazzo-uccellino al centro, che, ramingo e un po' impacciato, ha finalmente spiccato il volo; ah, ecco.
E infine entrano nella voliera Libbe e Francois. Libbe arriva da sinistra, leggerissima, mentre Francois entra da destra, un po' più legnoso ma oggettivamente un bel ragazzo – eravamo io un pettirosso e lui un corvo, mi spiegherà Libbe; ma questo l'avevo capito anche da solo.
Volteggiano per un po', sopra una musica che si è fatta classica. Quindi entrano altri, a comporre un pavimento di rocce. Libbe ci saltella sopra, spalanca le ali e declama in inglese "se l'anima tua col suo volo deve trovare il cielo, dovrà trovarlo stasera", perché evidentemente anche la regista argentina c'ha la citazione facile. Nelle parole di Libbe, si sente un po' l'accento romano, però va detto che in scena ha un magnetismo che ce l'ha solo lei. Per dire, nel frattempo ha tirato via la maschera dal viso, ma a me sembra ancora più pettirosso di prima. È l'espressione neutra il tuo pezzo forte – le dirò il mattino dopo. Le viene naturale. Secondo me – ma questo non glielo dirò – perché si allena costantemente nella vita quotidiana. È lo stesso, identico sguardo di quando le chiedo qualcosa a cui non vuole rispondere, e lei fa finta di non aver sentito e continua a digitare sullo smartphone.
– Si sentiva l'accento romano?
– Per niente.
– L'accento italiano?
– Ma no. Sei stata fortissima.
Libbe è ancora rossa di adrenalina in viso. Io tiro fuori il mazzo di fiori.
– Quelli che volevi non c'erano...
Lei sorride, ringrazia e – buttalo via – mi dà un bacetto sulla fronte.
– Il video?
– Una bomba. Un unico piano sequenza dall'inizio alla fine.
– Grande! Senti, devo andare, che do una mano a sistemare. Grazie che sei venuto, davvero.
– E ci mancherebbe... Ci vediamo stasera?
– Ci sentiamo domani mattina, – e qui fa veramente un occhiolino, che io neanche capisco bene cosa voglia dire, perché ormai, fuori chat, non so più decifrarli.
Si allontana verso il camerino improvvisato, elegante e un po' solenne, tenendo il mazzo di fiori come un paggetto tiene le fedi. Il piano sequenza la seguirebbe volentieri anche dentro.
Francois si sta rivestendo. La regista argentina entra di corsa, dà un bacio sul naso a Libbe, una pacca sulla spalla a Francois, fa i complimenti a entrambi.
– Avete un futuro, – dice mentendo come si fa in questi casi.
– Lui sì. Io ormai so' vecchia, – risponde Libbe in spagnolo. La regista ride. Francois non capisce ma ride anche lui. È un po' idiota, ma oggettivamente un bel ragazzo.
– Devo cambiarmi qui anch'io? – chiede Libbe.
– È il teatro, cherie...
Il piano sequenza segue la regista argentina matta che esce dal camerino, accende una sigaretta, la tiene in mano appoggiata a una panchina, non la fuma – sta cercando di smettere, mi spiegherà Libbe, per ora riesce a rinunciare alla nicotina ma non alla gestualità, quindi accende sigarette e le tiene in mano; ah, ecco.
La regista si allontana, ma la camera resta fissa e dopo un secondo arrivano Libbe e Francois.
Libbe si siede col sedere sull'estremità dello schienale e i piedi dove andrebbe il sedere, perché lei è una che mette del suo anche in un gesto banale come sistemarsi su una panchina. Poi inclina collo e testa all'indietro e fa per lasciarsi cadere.
– Non è abbastanza alto, – dice Francois.
Libbe lo fissa e scuote la testa. Chiude gli occhi. Si concentra. Fa arrivare telecinesicamente un pettine dal camerino e gli cancella quella cavolo di riga da una parte. Coi capelli arruffati, è oggettivamente ancora più bello.
– Come sto? – chiede lui.
– Truth or Dare? – chiede lei.
– Eh?
– Truth or Dare?
– Non ho capito la seconda.
– Truth. Or. Dare.
– Truth!
– You're boring.
– E allora l'altra...
Libbe lo prende per una mano e lo trascina via, dietro i camerini, fuori del parco, in qualche posto dove il mio sguardo non riesce a seguirli, ma il solito piano sequenza ovviamente sì.
E a questo punto, sappiate che avrei scritto una chiusa bellissima, ma non la pubblico per non spoilerare il finale del film a chi non l'ha ancora visto.
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