questo non è un blog su come trovare casa a parigi, ma magari così qualcuno ci finisce sopra per sbaglio
lunedì 25 marzo 2019
cimiteri
Io non ho paura di morire.
Ho paura di sciare, di arrampicare, di pattinare, di sbagliare in senso generale e di sbagliare frasi in modo particolare, della velocità quando guidano gli altri e della violenza psicologica, dei semafori lampeggianti, di dire ti amo per iscritto, del dolore fisico, delle precedenze di cortesia; qualche volta dell’altezza e qualche volta del buio. Ma non ho paura di morire.
C'era questo mio amico toscano che, quando gli parlavo della Francia e di Parigi, mi diceva che lui una volta a Parigi c'era stato e l'avevano portato a visitare camposanti. Lo diceva con accento toscano, che io non ho e non saprei riprodurre. Ma insomma, come la diceva lui, la frase faceva un certo effetto. C'è i camposanti, diceva. Non gli era andata granché giù, questa faccenda. Se stai tre giorni a Parigi e ti portano per camposanti, vuol dire che c'è qualcosa che non quadra in quella città, diceva. Nella migliore delle ipotesi, diceva, è una città infelice.
Non so se le sue parole mi abbiano in qualche modo influenzato o se sia una ritrosia già bell'e mia verso i camposanti. Ma insomma ho lasciato passare tre anni di vita parigina, in cui sono successe cose non sempre esaltanti e ho visitato luoghi non sempre memorabili, prima di iniziare a considerare di entrarci dentro, a un camposanto. Considerare di. Perché non è che sia stata neppure un'idea mia.
Libbe ha su di me un forte potere di persuasione, che esercita in maniera implicita, indiretta, velata, ma assolutamente infallibile.
Così quando mi ha chiesto Mi accompagni a un camposanto?, le ho raccontato di questo mio amico toscano, ho provato invano a riprodurne l'accento, le ho detto che qualcosa in Parigi non quadra mentre lei faceva sì con la testa, le ho detto che Parigi deve essere una città infelice mentre lei faceva no con la testa, ma poi ho comunque risposto Ma sì, certo, scherzi?, ti accompagno al camposanto.
Ne ha scelto pure uno un po' sfigato, almeno a giudicare dalle stellette sulle guide. Siamo usciti dal métro e l’ho seguita. Abbiamo attraversato il ponte. Cambiato marciapiede. Passato l'imponente cancello d'ingresso. E poi mi sono voltato e ho dovuto ammettere che, camposanto o no, eravamo in uno dei posti più silenziosi e suggestivi, che in tre anni di peregrinazioni parigine avessi incontrato, per ammirare e fotografare la Tour Eiffel.
Per il cimitero, mia nonna coltivava zinnie e comperava crisantemi. Mi piaceva, accompagnarcela. Mi annoiava ma mi piaceva. La aiutavo a portare i fiori fino alla cappella e poi la lasciavo lì che trafficava e mi occupavo di recuperare acqua. Quando tornavo, lei era intenta a liberare i gambi delle foglie in eccesso. Poi metteva l’acqua nei vasi. Poi regolava la lunghezza dei gambi, tagliuzzandoli fino a che non fossero della misura giusta per emergere dall’estremità del vaso senza apparire scompostamente in erezione.
I resti dell’operazione erano raccolti in fogli di giornale spalancati sul pavimento di sampietrini. Quando aveva finito, accartocciava i fogli su sé stessi e ne veniva fuori un pacco informe, che andavo a gettare nei bidoni all’ingresso. Li buttiamo quando usciamo, diceva lei, non preoccuparti. Ma io preferivo tenermi in movimento: un po’ per sentirmi utile, le dicevo; un po’ per sentirmi vivo, non le dicevo.
Quando tornavo, la trovavo che puliva il pavimento della cappella. Dei fiori vecchi, salvava il salvabile e buttava via il resto. Poi giocava a ridistribuirli, i fiori vecchi salvabili, mescolandoli ai nuovi, affinché ogni vaso avesse un effetto d’insieme godibile, o almeno decente. Il suo tocco finale era uno spruzzo di varechina nell'acqua: serviva a evitare che si producesse quel tipico cattivo odore di fiori morti di cimitero, diceva. Se metti la varechina, l’acqua si mantiene profumata. Ma non fa male ai fiori?, suggerivo io. Uno spruzzo, si difendeva lei. Uno spruzzo non fa male.
Poi andava a sedersi sulla tomba dirimpetto, le mani sul grembo, gli occhi sulla foto di mio nonno. Sospirava: di fatica, di solitudine e di fine lavoro.
Due minuti e andiamo, diceva.
Nessuna fretta, dicevo io.
E mi sedevo di fianco a lei.
La mia prima ragazza sognava di fare l’attrice. Aveva diciassette anni, usava parole e concetti un po’ a caso, e sembrava ogni sera più bionda e innamorata.
Ti va di andare al mare domenica prossima?, le chiedevo.
Solo se mi porti a Cuba, rispondeva.
Anziché fare progetti concreti, teorizzavamo su futuri di fantasia: viaggi con mezzi improvvisati, lavori che non erano lavori, braccialetti portafortuna brasiliani usati come fedi, case a dieci metri dalla spiaggia. Ricordo lunghe passeggiate e promesse tanto estreme e implausibili che, a distanza di tempo, mi chiedo se le facessimo credendoci davvero. Io forse sì; lei forse no. Del resto, lei usava parole e concetti un po’ a caso. Ce ne andremo a stare insieme, compreremo casa al mare, e magari morirò di tanto amore, diceva.
Erano gli anni Novanta: io non ero mai stato a Parigi, mia nonna era in buona salute, mio nonno era già morto da dieci anni, la mia prima ragazza sognava di fare l’attrice.
Andiamo al cinema?, le chiedevo.
Giriamo un film, rispondeva.
Era evidente che non sarebbe durata. Ammesso che non ci fossero ragioni più profonde, io ero troppo basso e lei era troppo bionda, perché potesse durare.
Quando glielo facevo notare, lei mi dava un bacetto sulla guancia. Allora io le dicevo Un giorno tu mi lascerai. Allora lei rispondeva Smettila, che sembriamo Giuda e Gesù Cristo.
Aveva spirito, la mia prima ragazza.
Ovviamente è finita che lei m’ha lasciato, io non l’ho sposata e lei non ha fatto l’attrice. Senza che ci sia alcun nesso tra le prime due cose e l’ultima, immagino.
Io non ho paura di morire. Nel senso che, se dopo viene qualcosa, non ho paura di quello che viene dopo; e se invece non viene niente, amen. È il sapere che c’è una scadenza ma non sapere quando scadrà, che mi disturba un po'. Non ho paura di morire, ma ho paura di non avere il tempo di finire le cose che devo finire e iniziare quelle che ho in mente di iniziare.
Tipo il bucato e la colazione.
Le email arretrate.
Le corde nuove alla chitarra.
Imparare a fare la carbonara come un vero romano e la pizza come un vero italiano.
Iniziare a fumare. Fumare e poi smettere, per capire se è davvero così complicato.
Lo yoga e la meditazione.
Gli origami.
Lavorare per davvero.
Sposarmi, o decidere definitivamente di non farlo.
Avere un bambino e rimbambirlo di chiacchiere, o decidere definitivamente di non averlo.
Finire di scrivere e finire di leggere.
Calvino, Camilleri, Joyce.
New York.
La maratona di New York.
Vivere in altre due o tre città.
Ritornare a Roma.
L’università, il blog, il corso di lettura ad alta voce.
– Il mondo è pieno di ragazzine che vorrebbero fare le attrici e ragazzini che vorrebbero sposare le attrici, – commenta Libbe, che sa sempre come e quando cambiare discorso.
Siamo arrivati davanti alla tomba di Fernandel. Lunga e nera e con una grossa croce sopra. Mi torna in mente Don Camillo. I film e il libro, e io bambino che li guardavo o leggevo. Mi tornano in mente le mattine che non andavo a scuola perché stavo male o fingevo di stare male, e c'era nonna in casa, e io mettevo su uno a uno tutti i vhs della collana. Mi torna in mente la Signora Cristina che dice che lei vuole un funerale senza musica perché la morte è una cosa seria.
Il cielo minaccia pioggia. È triste, la pioggia dentro i cimiteri. Sono tristi gli ombrelli, dentro i cimiteri. Tristi e un po' comici. Guardo la foto di Fernandel e lo immagino che parla col crocifisso sopra la sua tomba, che magari adesso che è morto gli viene anche più facile.
Tutto questo mentre Libbe sta dicendo che non puoi vivere a Parigi e non vederne anche i cimiteri, con tutti quei morti famosi che ci stanno dentro. E che a lei i cimiteri piacciono ma non le piace camminarci da sola, e per questo mi ha chiesto di accompagnarla. E che sono stato proprio gentile ad accettare, nonostante non mi piacciano i cimiteri e lei lo sa benissimo che da solo non ci sarei mai venuto.
Continuo a innamorarmi di donne che vorrebbero fare le attrici. Credo mi piaccia, di loro, questo sentirle sempre un po' vere e un po' no; e non capire mai se facciano sul serio o no; e allora non sentirmi in colpa quando non so rispondere alla domanda se le ami davvero o no.
– Io, quando muoio, voglio essere sepolta a Père-Lachaise come Yves Montand.
– ...
– Oppure a Montmartre come Jeanne Moreau.
– ...
– E tu?
– ...
– ...
– Dobbiamo proprio fare questo gioco?
Libbe non è una che accetta domande come risposte. Dobbiamo proprio fare questo gioco. E allora le dico che io preferirei vicino a nonno, a nonna e a tutti gli altri della famiglia.
E per il resto della passeggiata parlo pochissimo e rifletto sulla morte, che è una cosa che probabilmente rimandavo da tanto tempo e non sono mai stato bravissimo a fare. Ed è lì che stabilisco che non ho propriamente paura di morire, ma è sempre lì che mi viene anche una certa ansia di cose da finire e da iniziare. Ed è probabilmente ancora lì che incomincio ad avere un rapporto conflittuale col tempo che passa e le città in cui vivo. E sicuramente, infine, è lì che per la prima volta mi scopro a pensare che magari è veramente ora di lasciare Parigi.
Forse quest'ultima cosa, oltre a pensarla, la dico. Perché sento la voce di Libbe che domanda:
– E dove vorresti andare?
– Non lo so.
Libbe non è una che accetta non-risposte come risposte.
– Dove?
Non ricordo cosa dico, ma di sicuro non dico né Cuba né New York. Forse dico Londra; forse Dublino.
È iniziato a piovere leggero leggero.
Libbe accelera per uscire e andare a ripararsi da qualche parte.
Io rallento di proposito, perché voglio godermi per qualche istante il panorama dell'ingresso in semisolitudine.
La Tour Eiffel e il Palais de Chaillot, dietro l'imponente portone monumentale.
Parigi è bellissima ma in lei c'è qualcosa che non quadra.
Da dentro, arriva una ventata di fiori morti di cimitero.
Tutt'intorno, piove una pioggia che sembra la neve dei Morti di Joyce.
Io, per me, vorrei un funerale senza musica e con gli ombrelli.
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