martedì 3 aprile 2018

case

    La casa di Monaco è, tra le case della mia vita, la più calda.
    È una delle prime cose che ho notato, entrandoci dentro e prendendo a viverci. Assieme a un odore misto di pulito e di chiuso. Invece, una delle ultime cose che ho capito è perché sia così calda. Hanno dovuto spiegarmelo. Hanno dovuto mostrarmi, e farmi toccare con mano, che il riscaldamento viene da sotto: da terra: viene dal pavimento. La Germania è un paese freddo, ma i tedeschi sono garbati, alti e hanno il senso pratico degli americani senza la loro sfacciataggine.
    La casa di Monaco, da quando ci sono entrato io, non ci è entrato più nessuno. Tranne una volta il tipo della sicurezza, che provava a illustrarmi qualcosa parlando in tedesco. E, uno dei primi giorni, un imbianchino che senza spiegarmi nulla ha poggiato i secchi in un angolo e ha iniziato ad avvolgere teli trasparenti intorno ai mobili della cucina.
    Sarà il freddo, la spossatezza che mi porto dietro da case ed esperienze precedenti, sarà che i primi tempi non conosci nessuno ed è normale, sarà che il cucinino è piccolo ma funzionale e mi diverto a cucinarci – ma insomma la casa di Monaco è quella in cui ho passato, normalizzando rispetto al periodo trascorso, più tempo dentro. Non vuol dire che sono depresso; non credo. Al massimo vuol dire che sto invecchiando, o che sono in pace, o che ho cose da chiarire e studiare ma da chiarirmi e studiare da solo.
    Per questo, mi sorprende, e molto, il rumore di nocche contro la porta.
    Guardo dallo spioncino (la casa di Monaco ha uno spioncino).
    – Chi è?
    – Ouvre.
    Charlotte ha ventitré anni, e mi ricordo come fosse ora quella volta che ne ha compiuti venti mentre io ne compivo trentacinque. Trentacinque diviso due fa diciassette, col resto di uno. Venti più diciassette fa trentasette. Più uno che ne riportavo fanno trentotto. E sono quelli che compio oggi, mentre nocche di una mano francese ventitreenne bussano contro la porta della casa di Monaco. 
    – Che ci fai qui?
    – Tu, che ci fai qui?
    La voce di Charlotte carica sul "tu" un accento di frase talmente forte che deve averlo accumulato in settimane di chat facebook non risposte.
    – Tu, che ci fai qui?
    Adoro il suo italiano con accento francese almeno quanto lei adorava il mio francese con accento romano.
    Va verso la finestra e la apre senza chiedere nulla. Ha sempre aperto e chiuso finestre – e porte, e parentesi – senza chiedere nulla.
    Cerca riferimenti, guarda il sole, guarda l'ora.
    Poi dirige un dito verso un punto distinto dell'orizzonte.
    – Parigi, – dice.

    La casa di Parigi è, tra le case della mia vita, quella in cui ho fatto più volte l'amore senza essere innamorato.
    Dentro c'erano un televisore inutilmente grande, un soppalco troppo basso per dormirci, un letto 190x135, il frigorifero in camera anziché in cucina. Il problema di Parigi sono le misure. Non ci sono spazi. Né al ristorante, né al lavoro, né in casa. La Francia è un paese umido e i francesi sono persone mediterranee ma distanti: sono gatti mediterranei; e però hanno un rapporto nordico e continentale coi problemi: azzerano quelli che per un italiano sono problemi veri, e poi ne vedono dove io proprio non riesco.
    La casa di Parigi è anche quella in cui ho scritto di più. Pochissimo, ma comunque più che nelle altre. Mi ero imposto 1800 caratteri al giorno, e sono riuscito a farlo per quattro giorni. La casa di Parigi è quella in cui ho preso a impormi regole e disattenderle in maniera quasi malata. La Sindrome di Zeno, mi è piaciuto chiamarla. Ho smesso più volte e più volte ricominciato a bere caffè, a bere alcol, a guardare filmati porno, a non mettere la sveglia, a usare sughi pronti.
    Era una casa buia, faticosa e sovraprezzata, ma mi convincevo e convincevo gli altri che alla fine non aveva difetti grossi. Perché trovare casa a Parigi è un'esperienza fondante, e solo dopo che l'hai fatta puoi dire di saper dare il giusto significato alla parola compromesso.
    Una ragazza di cui non sono innamorato tira su la testa dal cuscino e mi domanda insonnolita se ha bussato qualcuno.
    – Chi è?, – chiedo a voce alta.
    – Sono io, – risponde una voce che so di conoscere ma fatico a collocare.
    – Che faccio? – chiedo a voce bassa.
    – Vai ad aprire.
    Infilo in fretta un pantalone e una felpa.
    La mia professoressa di italiano e storia delle medie non è invecchiata.
    – Ho saputo che scrivi 1800 caratteri al giorno.
    – Ci provo...
    – E che non bevi più caffè.
    – Posso darle finalmente del tu?
    – Il tuo posto non è qui.
    – Neanche il suo. Neanche il tuo.
    – Ho due biglietti per un treno di notte.
    – Quello del film?
    – Quello del libro.
    Mi volto.
    – Devo andare, – dico a voce bassa.
    La ragazza ha finito di rivestirsi e sta cercando insonnolita qualcosa nella borsa.
    Si avvicina; la prendo tra le braccia.
    – Non ti amo, – sussurro.
    – Neanch'io, – risponde lei.
    E poi ci baciamo.


    

    La casa di Lisbona è, tra le case della mia vita, quella in cui ho avuto più problemi di stomaco.
    Che poi la casa di Lisbona non è una casa sola. La casa di Lisbona sono sei case in un anno, e cinque nei primi sei mesi. E in particolare, una casa che abitavo solo nei giorni feriali perché nei weekend la proprietaria ci faceva una specie di airb&b e io chiudevo tutto dentro una valigia e andavo a dormire da lei.
    Erano i tempi della crisi nera, quella che in Portogallo è arrivata prima che da qualsiasi altra parte in Europa. E la sentivano tutti, e ne parlavano tutti. E i proprietari di case si arrangiavano anche così.
    Le case di Lisbona hanno letti scomodissimi, da mal di schiena e torcicollo fissi. E tanta, troppa luce che entra in camera da dietro le tende e gli scuri. Lisbona è una bomba di luce. Per questo i portoghesi tengono sempre gli occhi stretti e a quarant'anni ci hanno le rughe intorno. Sono gente per bene, i portoghesi. Cordiali e semplici. Hanno la voce triste e, dentro, una retroanima selvatica e primitiva, che secondo me viene dalla prossimità all'oceano.
    La casa di Lisbona è quella in cui ho ospitato più persone. Arrivavano a frotte con cibi e libri italiani nelle valigie e io li portavo a passeggiare da Cascais all'Estoril, a mangiare i pastéis, a sentire il fado, a bere la ginjinha, e se c'era tempo a Sintra. Trascorrevo giornate intere fuori casa. All'inizio mi sentivo giovane e di passaggio; dopo i primi sei mesi, soltanto di passaggio. La casa di Lisbona è quella in cui sono invecchiato più rapidamente.
    Bussano. Ci avrei giurato: da che mi ricordo, da sempre, da quando ero bambino, mai una volta che si porti le chiavi.
    Non gli chiedo dove sia stato, perché tanto lo so già che ha camminato a caso per i vicoli di Alfama che gli ricordano altri vicoli, e poi si è seduto sulla panchina di fronte casa, quella dove batte sempre il sole.
    – Facciamo una aglio e olio e poi partiamo.
    Spotify passa musica italiana anni novanta.
    Lui sfoglia il giornale italiano di cinque giorni prima.
    Io intanto trituro il prezzemolo.
    – Sei sicuro che non sei stanco? Possiamo rimandare...
    – No, papà. Partiamo stasera.

    La casa di Marano è la casa dei ritorni.
    Ancora oggi, che pure ci manco da quasi dodici anni, quando parlo di casa intendo quella casa lì e quando utilizzo il verbo tornare intendo tornare in quella casa lì.
    Resta il posto in cui ho dormito più notti. Ma l'ho fatto, nel corso degli anni, in letti diversi o almeno in letti posizionati diversamente. Un tempo ce n'erano due, a dividersi lo spazio di una camera, e io e mio fratello a dividerceli. Da quando la casa di Marano è diventata la casa dei ritorni, in quella camera è rimasto un solo letto e ci sono più spazio e più silenzio.
    All'ultimo piano c'è una soffitta piena di scatoloni. Lì dentro, in mezzo a vecchi elettrodomestici, vecchi computer, vecchie stoffe, ci sono oggetti, libri e appunti di quando ero piccolo e di quando ero giovanissimo.
    La casa di Marano è, tra le case della mia vita, quella da cui ho buttato via meno cose. Le case successive sarebbero state segnate da traslochi difficoltosi e rapidi, che come catarsi avrebbero ripulito scaffali e coscienza. Qualcuno, prima o poi, dovrebbe scrivere un elogio del trasloco, che insegnasse l'arte di tenerlo in bilico tra il fare i conti con se stessi e il fuggire.
    Dalla finestra della camera si vedono, in due direzioni diverse, il rosa di un santuario e il bianco di una statua di Madonna. Da bambino, cattolico come mi avevano cresciuto, li cercavo con gli occhi quando avevo bisogno di consolazione o cure. Lo faccio ancora, inconsciamente, impercettibilmente, in ciascuno dei miei ritorni.
    Guardo quel rosa e quel bianco, e poi mi volto verso l'interno della camera. Il letto adesso è posizionato in orizzontale, sulla parete di fondo. Mi ci appoggio, stancamente; mi lascio cadere su un fianco; mi accuccio in posizione fetale. Allontano i pensieri faticosi, cancello i pochi rumori che arrivano dalla strada, mi rannicchio ancora un po' e, quando arrivo con la fronte a toccare la punta delle ginocchia, faccio una cosa definitiva tipo nascere.

sabato 31 marzo 2018

fuorisede

    Sono passati cinque mesi dall'ultimo post.
    Nel frattempo ho cambiato casa, lavoro e soprattutto città: e non sapevo bene come dirvelo.
    Ma non è mica finita. Mancano ancora cinque caselle al gioco dell'oca parigino, e ho intenzione di giocarmele da fuorisede.

    A prestissimo!