New Orleans, New Orleans
Il jazz è quel genere musicale in cui chi suona si diverte molto più di chi ascolta.
Il trombettista batte quattro volte il piede a terra, il pubblico tiene tre secondi d'apnea, l'orchestra parte. Loro sono in otto, vestiti in camicia bianca, pantalone nero, cravatta nera. Due di loro – saranno i capibanda, saranno i più freddolosi – indossano anche un gilet.
A metà pezzo, il clarinettista lascia lo strumento e inizia a cantare battendo il ritmo con le mani. Ci invita a fare altrettanto e nel frattempo ammicca al resto della banda, gioca a gonfiare il petto, ride come un matto e, insomma, o è un attore della madonna o davvero si diverte persino più di noi, che pure apprezziamo e – stabilito probabilmente un nuovo record di apnea collettiva – a fine pezzo applaudiamo.
La Preservation Hall è un piccolo freezer del jazz, ben nascosto nel French Quarter. Negli anni Sessanta, devono aver scelto un blocco di autentico New Orleans Traditional e devono avercelo buttato dentro. Da allora, ogni santa sera lo tirano fuori, ma solo per un'oretta e solo per una sessantina di fortunati; un attimo prima che si sciolga, lo ricacciano nel freezer.
Nomi propri di persona
– Come eravamo giovani.
– Era solo un anno fa.
– Un giorno mi racconterai pure questa benedetta risalita del Mississippi...
Marcello è al terzo Bloody Mary, mentre io sono passato ai whisky. Che non li avrà inventati Harry, ma si direbbe lui sappia almeno sceglierli e conservarli come si deve. Dentro di me, intanto, la piccola ernia iatale ringrazia e scivola ritmicamente su e giù dal diaframma. Erano mesi che non la vedevo così contenta.
Invece Marcello si sta un po' incupendo, mi sembra. Gli chiedo finalmente di Miriam, dato che lui non ne parla. Che poi io questa qui non l'ho mai vista neanche in foto, e, detto tra noi, se indugiavo a chiedere, è pure perché avevo in cuore un mezzo dubbio che non si chiami invece Gisella. Lo so, a voi sembreranno due nomi diversissimi, ma per me, due che si chiamano Miriam e Gisella, se non le ho mai viste, hanno entrambe i capelli neri a caschetto e il naso un po' grosso; quindi, soprattutto dopo il secondo whisky, i due nomi li confondo facilmente.
Che poi sono abbastanza un disastro in generale, coi nomi propri. Tipo alle feste. Quando mi presentano sette persone di fila, una dietro l'altra, e io non ho ancora imparato che, mentre bacio guance e stringo mani, devo concentrarmi sui nomi che dicono loro, e non sul mio, cazzo, che è lo stesso da trentaquattro anni e sono sicuro che la mia bocca riuscirebbe a pronunciarlo anche senza il mio aiuto. Invece, finito il giro di presentazioni, e passato qualche istante di iniziale e sciocca soddisfazione per aver scandito perfettamente il mio nome per sette volte, mi accorgo che tutto quello che mi è rimasto in testa, di questi tipi davanti a me, è veramente poco: boh, deve esserci un Edoardo, o forse invece era Leonardo, e due o tre di loro hanno le mani sudate, ma non saprei nemmeno dire quali.
Poi anche 'sta storia della scrittura non è che aiuti. Perché se ogni tanto scrivi – mettici pure tutti i filtri e la fantasia del mondo – ti viene, un po', da attingere a quello che ti succede intorno. E però per qualche pudore strano, ma pure quando scrivi per te e basta, i nomi dei personaggi tendi a cambiarli. E allora finisce che dopo qualche tempo, le persone che ti circondano hanno per te almeno due nomi; in qualche caso sfortunato, anche di più.
– E ce lo so, – direbbe Tanya nel suo inconfondibile American English, che lei sarà pure partita ma il suo accento m'è rimasto appiccicato all'anima, o almeno alle orecchie. Ha ancora gli occhi verdi e i capelli legati. Ed è dolce dolce come quel giorno ma stavolta anche un po' bellicosa.
– Ma tu che ci fai qui? – le chiedo.
– È un American bar. Che cazzo ci fai tu, piuttosto?
– Posso offrirti un whisky?
– Ci hai messo il mio nome vero.
– Ma no.
– Ma sì.
– Ma solo in una frase...
– E comunque si scrive Jennie, con l'ie finale.
– Come eravamo giovani.
– Era solo un anno fa.
– Un giorno mi racconterai pure questa benedetta risalita del Mississippi...
Marcello è al terzo Bloody Mary, mentre io sono passato ai whisky. Che non li avrà inventati Harry, ma si direbbe lui sappia almeno sceglierli e conservarli come si deve. Dentro di me, intanto, la piccola ernia iatale ringrazia e scivola ritmicamente su e giù dal diaframma. Erano mesi che non la vedevo così contenta.
Invece Marcello si sta un po' incupendo, mi sembra. Gli chiedo finalmente di Miriam, dato che lui non ne parla. Che poi io questa qui non l'ho mai vista neanche in foto, e, detto tra noi, se indugiavo a chiedere, è pure perché avevo in cuore un mezzo dubbio che non si chiami invece Gisella. Lo so, a voi sembreranno due nomi diversissimi, ma per me, due che si chiamano Miriam e Gisella, se non le ho mai viste, hanno entrambe i capelli neri a caschetto e il naso un po' grosso; quindi, soprattutto dopo il secondo whisky, i due nomi li confondo facilmente.
Che poi sono abbastanza un disastro in generale, coi nomi propri. Tipo alle feste. Quando mi presentano sette persone di fila, una dietro l'altra, e io non ho ancora imparato che, mentre bacio guance e stringo mani, devo concentrarmi sui nomi che dicono loro, e non sul mio, cazzo, che è lo stesso da trentaquattro anni e sono sicuro che la mia bocca riuscirebbe a pronunciarlo anche senza il mio aiuto. Invece, finito il giro di presentazioni, e passato qualche istante di iniziale e sciocca soddisfazione per aver scandito perfettamente il mio nome per sette volte, mi accorgo che tutto quello che mi è rimasto in testa, di questi tipi davanti a me, è veramente poco: boh, deve esserci un Edoardo, o forse invece era Leonardo, e due o tre di loro hanno le mani sudate, ma non saprei nemmeno dire quali.
Poi anche 'sta storia della scrittura non è che aiuti. Perché se ogni tanto scrivi – mettici pure tutti i filtri e la fantasia del mondo – ti viene, un po', da attingere a quello che ti succede intorno. E però per qualche pudore strano, ma pure quando scrivi per te e basta, i nomi dei personaggi tendi a cambiarli. E allora finisce che dopo qualche tempo, le persone che ti circondano hanno per te almeno due nomi; in qualche caso sfortunato, anche di più.
– E ce lo so, – direbbe Tanya nel suo inconfondibile American English, che lei sarà pure partita ma il suo accento m'è rimasto appiccicato all'anima, o almeno alle orecchie. Ha ancora gli occhi verdi e i capelli legati. Ed è dolce dolce come quel giorno ma stavolta anche un po' bellicosa.
– Ma tu che ci fai qui? – le chiedo.
– È un American bar. Che cazzo ci fai tu, piuttosto?
– Posso offrirti un whisky?
– Ci hai messo il mio nome vero.
– Ma no.
– Ma sì.
– Ma solo in una frase...
– E comunque si scrive Jennie, con l'ie finale.
Marcello intanto sta parlando, con me, di Miriam.
Io non ho seguito granché le parole ma il tono suggerisce che le cose non vadano benissimo. Torna una sera sì e due no, sta dicendo; non risponde in chat anche se c'è la spunta blu, sta dicendo; non rispetta il calendario delle pulizie. Marcello usa immagini bellissime. Aspetto che faccia una pausa per poterglielo dire. Hanno un calendario delle pulizie: trovo la cosa buffa; mi riporta a un mondo lontano popolato da giovanissimi studenti fuorisede, a coinquilini che consumano troppa carta igienica, a peli di barba bionda sul lavabo, a servizi di bicchieri in cui non ne trovi due uguali, a caffettiere mai lavate.
Quando torno nell'Harry's Bar, Marcello sta parlando di free jazz, di variazioni su un tema così spericolate che alla fine il tema non sai neanche più qual era. Ma forse è solo una metafora da Bloody Mary.
Infatti adesso si alza, un po' teatrale, e fa: – Però mi vuole bene, eh... Le donne tendono a vedermi come un gentiluomo. Il padre ideale dei figli che faranno con qualcun altro... Whisky?
Marcello usa frasi molto belle. Solo che ho perso gli ultimi sette minuti di monologo e mi resta il dubbio se questa sia sua o se invece stia citando Woody Allen.
– L'ultimo, dài.
Il test dei fratelli Conte
Il vecchietto con la stessa pelata del pianista di Paolo Conte smette improvvisamente di fare su e giù con la testa. Si alza, si stiracchia, si volta e viene verso il mio tavolo. Lo riconosco subito e quasi svengo.
– Enchanté. Paolo Conte.
Io non ho seguito granché le parole ma il tono suggerisce che le cose non vadano benissimo. Torna una sera sì e due no, sta dicendo; non risponde in chat anche se c'è la spunta blu, sta dicendo; non rispetta il calendario delle pulizie. Marcello usa immagini bellissime. Aspetto che faccia una pausa per poterglielo dire. Hanno un calendario delle pulizie: trovo la cosa buffa; mi riporta a un mondo lontano popolato da giovanissimi studenti fuorisede, a coinquilini che consumano troppa carta igienica, a peli di barba bionda sul lavabo, a servizi di bicchieri in cui non ne trovi due uguali, a caffettiere mai lavate.
Quando torno nell'Harry's Bar, Marcello sta parlando di free jazz, di variazioni su un tema così spericolate che alla fine il tema non sai neanche più qual era. Ma forse è solo una metafora da Bloody Mary.
Infatti adesso si alza, un po' teatrale, e fa: – Però mi vuole bene, eh... Le donne tendono a vedermi come un gentiluomo. Il padre ideale dei figli che faranno con qualcun altro... Whisky?
Marcello usa frasi molto belle. Solo che ho perso gli ultimi sette minuti di monologo e mi resta il dubbio se questa sia sua o se invece stia citando Woody Allen.
– L'ultimo, dài.
Il test dei fratelli Conte
Il vecchietto con la stessa pelata del pianista di Paolo Conte smette improvvisamente di fare su e giù con la testa. Si alza, si stiracchia, si volta e viene verso il mio tavolo. Lo riconosco subito e quasi svengo.
– Enchanté. Paolo Conte.
– Sì, oddio, so benissimo chi è lei... Ero al suo concerto. Enchanté...
– Come si chiama il tuo amico?
– Intende Marcello?
– Marcello. È tutta la sera che lo ascolto. Usa immagini molto belle e frasi molto belle. Ma per il resto, sta sbagliando tutto. C'è un semplice test per trovare la donna della propria vita.
– Un test?
– Conosci mio fratello?
– Giorgio?
– Lui.
– Altroché, mi fa spaccare.
– Perfetto. A lui questo test non piace, ma ti assicuro che è valido.
– Un test.
– Funziona così. Allora, mettiamo che hai conosciuto una che ti sembra interessante e con cui sembra andare bene. Cosa le dici?
– E che ne so... Via, via, vieni via con me?
– Eh?!?
– Non perderti per niente al mondo lo spettacolo...
– Stronzate. Devi farle una sola domanda. Il test. La guardi negli occhi e le chiedi: Ma tu – pausa – lo conosci Giorgio Conte?
– Questo è... il test?
– Sì!
Paolo Conte è raggiante. E forse incomincio a capire anch'io.
– Ah, ok, ci sono! Se lei risponde di sì, allora quella è la donna della mia vita!
Paolo Conte batte un pugno sul tavolo e dice una parolaccia astigiana.
– Ma lo vedi che non capite un cazzo? Già ci sei tu che conosci Giorgio Conte. Uno nella coppia basta e avanza. Troppa cultura di nicchia, sai che palle... Passereste le serate ad ascoltare album degli Inti Illimani e guardare film polacchi.
– In effetti...
– Questa risposta è da scartare. Nel caso, le dai un bacetto sulla guancia e dici che devi scappare perché hai lasciato il gas acceso. O le finestre aperte. O il gas aperto. Quello che vuoi.
– Non le finestre accese, però...
– Una risposta tutto sommato accettabile è semplicemente: Chi?!?
– Sì, capisco. Una donna semplice, vita rilassata... Senza tanti patemi.
– Esattamente. Da scartare, invece, quelle che rispondono qualcosa tipo: Ma certo, quello che canta "it's wonderful it's wonderful", vero?
– Hmm...
– Per carità. Si può accettare l'ignoranza ma non l'approssimazione.
– Giusto.
– E comunque, ovviamente, la risposta migliore, quella della donna da sposare, sarà: Volevi dire PAOLO Conte?
Epiloghi
Marcello torna con in mano gli ennesimi due bicchieri e lancia un ultimo cheers.
– A cosa brindiamo?
In genere è una domanda che odio, ma stavolta la risolvo facile.
– A Gisella!
– E chi è?
– Boh, una mia amica...
– Carina?
– Abbastanza. Giusto il naso un po' grosso...
– A Gisella, allora!
Marcello impiega tre sorsi. A me ne serve uno in più, ma va detto che lui è un Ottantaquattro e arrivati a fine serata sono dettagli che pesano.
Il vecchietto con la stessa pelata del pianista di Paolo Conte smette improvvisamente di fare su e giù con la testa. Si alza, si stiracchia, si volta, passa davanti al nostro tavolo e esce.
– Che tipo, – commenta Marcello.
– Già, – faccio io tenendomi la testa con le mani.
Usando la giusta concentrazione e tecniche di respirazione imparate intorno ai diciott'anni, riesco a non vomitare, ma è davvero una lotta dura tra il mio orgoglio e il mio stomaco.
Dopo un minuto, usciamo anche noi. C'è ancora buio, poca gente in strada. In qualche modo torniamo a casa, ed è un processo di cui non ricordo i dettagli, ma che immagino lungo e poco lineare.
Nelle ricostruzioni del mattino seguente, ci accorgeremo che abbiamo finito col materializzare tutte e tre le ipotesi che avevo buttato sul tavolo a inizio serata. Nel senso che torniamo in taxi, ma prima di trovarne uno camminiamo per poco meno di cinquanta minuti, e mentre apriamo la porta di casa vediamo gente sbucare dall'uscita del metro, che evidentemente è tornato in funzione perché in effetti è l'alba.
Libbe è appena stata dal parrucchiere e sfida il vento gelido con capelli anche più corti del solito.
Se glielo fai notare, ti risponde che dopo tutto quello che ha passato ma figurati se la spaventa un inverno.
– Poi l'ho visto, il blog.
– Bene.
– Fico.
– Mi fa piacere.
Sorride.
– Ma... io solo così che apro e chiudo?
– Cioè?
– Cioè il tè, i pasticcini, du' battute... Famme fa' qualcosa.
Ride.
– Ma sì, tranquilla. Ho grandi progetti per te.
Passa un dito ad arricciare invano una ciocca di capelli che non c'è.
E sia io che voi riconosciamo benissimo il momento. Perciò salto qualche passaggio e arriviamo direttamente a quando io, per fare il fico, guardo un punto dritto davanti a me, verso l'orizzonte, e rispondo: – Ma figurati. L'unica cosa vera vera vera è che c'ho trentaquattro anni suonati.
– Dài.
– Eh.
Adesso anche lei guarda fisso un punto dell'orizzonte davanti a sé. Sembriamo due matti. Fichissimi ma matti.
– Cioè ma tipo che manco il concerto?
– Costava troppo. 70 euro in balconata. Ma che davero...
Fonte della prima immagine:
Preservation Hall Jazz Band. Photograph. Britannica Online for Kids. Web.